Eros (Verga)/XXVII
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XXVII.
Il marchese Alberti trovò a casa sua un biglietto di partecipazione delle prossime nozze dell’amico Gemmati colla cugina Forlani.
— Alcune volte il caso ha una logica singolare! egli pensò.
Il suo vecchio domestico venne a recargli il lume verso le otto, quantunque ei non l’avesse domandato, e gli chiese discretamente se si sentisse male, e se volesse desinare in casa.
— No, rispose Alberto. Sai, Toni? l’Adele si marita! sposa Gemmati!
La contessa Armandi abitava un bellissimo appartamento in via Larga, e siccome ci aveva un giardino annesso, riceveva ancora, malgrado che la stagione fosse inoltrata di molto. Alberto verso le dieci andò in via Larga, e fece rimettere il suo biglietto di visita alla contessa.
Ella venne ad incontrarlo all’uscio della sala. Era troppo gran dama per fargli nessuna domanda; ma era troppo donna per resistere alla tentazione di lanciare la sua unghiata.
— Che fortuna?... finalmente! gli disse stendendogli la mano.
Alberto sembrava calmo, ed aveva un sorriso nervoso che poteva passare per disinvoltura. Sedendole accanto sul canapè, la ringraziò di aver tolto la consegna che gli vietava di passare la porta di lei.
— Non mi ringrazî, chè non ci ho nessun merito.... rispose l’Armandi piantandogli in volto come punti interrogativi gli occhi e il sorriso.
Era ancora troppo presto, e la contessa ed Alberti stettero soli una mezz’ora a discorrere di cose indifferenti.
— E le signore Manfredini? domandò sbadatamente l’Armandi.
— Verranno più tardi.... probabilmente.
La contessa lasciò passare quel probabilmente, e cambiò discorso.
A poco a poco incominciarono a venire gli amici di casa, e l’Armandi presentava il marchese Alberti come se fosse arrivato dall’Australia. La conversazione si fece generale. Verso le undici entrarono le Manfredini coll’inseparabile Don Ferdinando. La contessa, alzandosi per andarle a ricevere, strinse furtivamente la mano ad Alberto, e gli susurrò sottovoce queste parole:
— Giudizio! mi raccomando.
Velleda possedeva una perfetta disinvoltura, e sebbene la presenza inaspettata di Alberti in casa Armandi dovesse sorprenderla, non ne mostrò nulla. Metelliani sembrava raggiante; la contessa Manfredini era maestosa.
Alcuni si erano messi a giocare; due o tre signore canticchiavano e provavano della musica al piano, sottovoce; il crocchio principale era fra le due finestre della sala, presso il canapè, dov’erano l’Armandi, le due Manfredini, Don Ferdinando ed Alberto. Si facevano molte parole, perchè quasi tutti gli attori di quella scena avevano una preoccupazione da nascondere. Alberto faceva pompa di una gaiezza febbrile che scoppiettava in paradossi e in epigrammi. Velleda, dopo avergli lanciato di nascosto due o tre occhiate fra sorpresa e curiosa, avea preso parte alla conversazione col brio che le era solito. L’Armandi, a guisa di abile capo d’orchestra, dirigeva la rappresentazione, e dava il tono alla conversazione generale.
In quel tempo non facevasi che parlare a Firenze di una povera ragazza, la quale si era asfissiata col carbone, perchè volevano costringerla a sposare un tale mentre amava un altro. La novità di quel genere di morte, la morte dei poveri di borsa e d’animo, avea messo in moda quell’argomento; nei saloni aristocratici se ne discorreva molto, e le signore vi sciorinavano sopra il loro sentimentalismo profumato; la sola Armandi avea indovinato esser quello un argomento pericoloso, e cercava di cambiar discorso; ma Alberto vi si attaccava con avida ostinazione, come se si sentisse forte su quel terreno, e sfoggiava a proposito un cinismo provocante.
— Scommetto che il fidanzato proposto a questa ragazza non era ricco, diss’egli.
— Perchè? domandò imprudentemente la signora Manfredini.
— Perchè se fosse stato ricco, la ragazza si sarebbe rassegnata a sposarlo invece di suicidarsi.
— Che orrore! esclamarono le signore agitando il ventaglio.
— Signore mie, non possiamo giudicare su di ciò colle idee nostre. Quella era una povera popolana...
— E per questo?... Non poteva amare?... interruppe Don Ferdinando che trovavasi nel quarto d’ora di tenerezza.
Alberto gli rise in faccia insolentemente.
— O che ci ha a fare l’amore con cotesto?...
Le signore erano imbarazzate, compresa l’Armandi, che non sapeva qual contegno prendere. La signora Manfredini s’era fatta rossa come un tacchino; ma la figliuola era rimasta perfettamente padrona di sè, facendosi vento però con un poco d’animazione. Ella sola ebbe il coraggio di lottare, colle medesime armi, contro quel disperato che ubbriacavasi di epigrammi.
— Ha notizia di sua cugina Adele? gli domandò tranquillamente, come per sviare il discorso.
— Mia cugina sta benissimo; e sposa il mio amico Gemmati: rispose Alberti collo stesso tono.
— Ella dunque non crede all’amore! insistè Metelliani con cocciutaggine da milionario, e cercando di comprometterlo agli occhi di Velleda, poichè anch’egli era geloso di Alberto.
Questi gli piantò gli occhi negli occhi; e rispose ironicamente:
— L’argomento comincia ad annoiare coteste signore. Vogliamo fare una partita a carte piuttosto?
Il principe parve esitare; ma infine inchinò il capo, e lo precedette al tavolino. Mentre Alberti lo seguiva la Armandi gli disse piano:
— Alberto!
Egli non s’avvide dell’accento turbato e della parola confidenziale; la rassicurò con un sorriso contraffatto, e passò nell’altra sala.
I due giuocatori sedettero di faccia. L’Armandi, inquieta, venne ad appoggiarsi alla spalliera di una seggiola, mostrando prendere un grande interesse alla partita; Velleda non si tradiva, ma era inquieta anch’essa, e ronzava per la sala da giuoco con un’inquietezza che non sapeva padroneggiare. I due avversari, seduti in modo che quasi si toccavano, non alzavano gli occhi dalle carte; sembravano completamente assorti nel giuoco, e al lume delle candele erano pallidi.
Alberti giuocava come un uomo che ha la febbre, e che perde sulla parola. I suoi occhi fissavansi di tanto in tanto scintillanti sul volto del principe, che rimaneva impassibile, e all’ombra della ventola sembrava di marmo. Metelliani era troppo uomo di mondo per dare ad Alberti il menomo pretesto ad una provocazione; giocava freddamente, da gran signore, ed era fortunato come un milionario. Tatt’e due non dicevano che le sole parole indispensabili — il principe colla sua flemma inalterabile, Alberto armandole di tutte le punte dell’epigramma, senza che riescisse a far balenare gli occhi del suo avversario, far imporporare il suo volto; egli perdeva sempre. Infine, come se quell’imperturbabilità calcolata gli avesse fatto perdere la testa, si alzò, buttò con piglio insolente sul tavolino il danaro, e disse a Don Ferdinando:
— Ella mi ha domandato se credessi all’amore. Adesso che siamo soli le dico che ci credo quando invece di guadagnarci qualcosa ci si rimette — come credo alla onestà del giuocatore quando non vince sempre.
E rimase ritto dall’altro lato del tavolino, provocando ancora coll’attitudine. Il principe alzò finalmente gli occhi su di lui, si lisciò la barbetta, e rispose freddamente:
— Io ho centoventimila scudi di rendita, signore. Si alzò anche lui, e gli volse le spalle.
Alberto sentì una mano tremante che l’afferrava pel braccio.
— M’aveva promesso! gli disse l’Armandi pallida anch’essa.
Ei si passò una mano sulla fronte, come per mettere a sesto le sue idee.
— Ha ragione!... Le chiedo perdono! Non so dove abbia la testa!
Rimasero silenziosi tutt’e due, ritti presso la finestra.
L’ultima carrozza, ch’era quella delle Manfredini, passò la porta. Alberto si celò il viso fra le mani e scoppiò in pianto.
— Soffrite anche voi!... finalmente!... proruppe l’Armandi con accento intraducibile.
Alberto rimase sbalordito da quella esplosione violenta di un sentimento inesplicabile che quella donna avea celato sotto la frivolezza, che irrompeva pieno di collera e di lagrime. Egli le afferrò le mani, e la guardò alcuni istanti con mille confusi sentimenti negli occhi ardenti di lagrime.
— M’amate! esclamò.
La fiamma dell’orgoglio asciugò in un lampo gli occhi di lei.
— Io? disse corrucciata e con impeto. Siete matto?
Egli non l’ascoltava: avea la tempesta nell’anima.
Ella strappò con violenza le mani da quelle di lui, si rizzò in tutta l’altezza della sua bella persona, e rimase un momento cogli occhi chiusi, premendosi il petto colle mani.
— Marchese! disse quindi pacatamente. Sappiate che io mi rispetto immensamente.
Alberto levò il capo, la guardò stralunato, come non capisse quello che avveniva al di fuori di lui, e poi balbettò:
— Perdonatemi! son pazzo...
E quindi proruppe con amarezza disperata:
— Sì, son pazzo... guardate!
— Lasciamoci amici — disse la contessa dopo una breve pausa — amici schietti.