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berti il menomo pretesto ad una provocazione; giocava freddamente, da gran signore, ed era fortunato come un milionario. Tatt’e due non dicevano che le sole parole indispensabili — il principe colla sua flemma inalterabile, Alberto armandole di tutte le punte dell’epigramma, senza che riescisse a far balenare gli occhi del suo avversario, far imporporare il suo volto; egli perdeva sempre. Infine, come se quell’imperturbabilità calcolata gli avesse fatto perdere la testa, si alzò, buttò con piglio insolente sul tavolino il danaro, e disse a Don Ferdinando:
— Ella mi ha domandato se credessi all’amore. Adesso che siamo soli le dico che ci credo quando invece di guadagnarci qualcosa ci si rimette — come credo alla onestà del giuocatore quando non vince sempre.
E rimase ritto dall’altro lato del tavolino, provocando ancora coll’attitudine. Il principe alzò finalmente gli occhi su di lui, si lisciò la barbetta, e rispose freddamente:
— Io ho centoventimila scudi di rendita, signore. Si alzò anche lui, e gli volse le spalle.
Alberto sentì una mano tremante che l’afferrava pel braccio.
— M’aveva promesso! gli disse l’Armandi pallida anch’essa.
Ei si passò una mano sulla fronte, come per mettere a sesto le sue idee.
— Ha ragione!... Le chiedo perdono! Non so dove abbia la testa!