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Rimasero silenziosi tutt’e due, ritti presso la finestra.
L’ultima carrozza, ch’era quella delle Manfredini, passò la porta. Alberto si celò il viso fra le mani e scoppiò in pianto.
— Soffrite anche voi!... finalmente!... proruppe l’Armandi con accento intraducibile.
Alberto rimase sbalordito da quella esplosione violenta di un sentimento inesplicabile che quella donna avea celato sotto la frivolezza, che irrompeva pieno di collera e di lagrime. Egli le afferrò le mani, e la guardò alcuni istanti con mille confusi sentimenti negli occhi ardenti di lagrime.
— M’amate! esclamò.
La fiamma dell’orgoglio asciugò in un lampo gli occhi di lei.
— Io? disse corrucciata e con impeto. Siete matto?
Egli non l’ascoltava: avea la tempesta nell’anima.
Ella strappò con violenza le mani da quelle di lui, si rizzò in tutta l’altezza della sua bella persona, e rimase un momento cogli occhi chiusi, premendosi il petto colle mani.
— Marchese! disse quindi pacatamente. Sappiate che io mi rispetto immensamente.
Alberto levò il capo, la guardò stralunato, come non capisse quello che avveniva al di fuori di lui, e poi balbettò:
— Perdonatemi! son pazzo...
E quindi proruppe con amarezza disperata:
— Sì, son pazzo... guardate!
— Lasciamoci amici — disse la contessa dopo una breve pausa — amici schietti.