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— Giudizio! mi raccomando.

Velleda possedeva una perfetta disinvoltura, e sebbene la presenza inaspettata di Alberti in casa Armandi dovesse sorprenderla, non ne mostrò nulla. Metelliani sembrava raggiante; la contessa Manfredini era maestosa.

Alcuni si erano messi a giocare; due o tre signore canticchiavano e provavano della musica al piano, sottovoce; il crocchio principale era fra le due finestre della sala, presso il canapè, dov’erano l’Armandi, le due Manfredini, Don Ferdinando ed Alberto. Si facevano molte parole, perchè quasi tutti gli attori di quella scena avevano una preoccupazione da nascondere. Alberto faceva pompa di una gaiezza febbrile che scoppiettava in paradossi e in epigrammi. Velleda, dopo avergli lanciato di nascosto due o tre occhiate fra sorpresa e curiosa, avea preso parte alla conversazione col brio che le era solito. L’Armandi, a guisa di abile capo d’orchestra, dirigeva la rappresentazione, e dava il tono alla conversazione generale.

In quel tempo non facevasi che parlare a Firenze di una povera ragazza, la quale si era asfissiata col carbone, perchè volevano costringerla a sposare un tale mentre amava un altro. La novità di quel genere di morte, la morte dei poveri di borsa e d’animo, avea messo in moda quell’argomento; nei saloni aristocratici se ne discorreva molto, e le signore vi sciorinavano sopra il loro sentimentalismo profumato; la sola Armandi avea indovinato esser quello un argomento pericoloso, e