Atto III

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Atto II Atto IV
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ATTO TERZO.

SCENA PRIMA.

Notte.

Matilde e Ormondo dalla porta comune, preceduti da un paggio con torcia accesa.

Ormondo. Matilde, alfin siete mia sposa. Oh quale

Gioia risento in replicar tal nome!
Voi sì lieta però non veggo. Ah temo,
Che di peso a voi sia cotesto nodo,
Che a me sembra sì lieve. E donde nasce
Questa mestizia vostra?1 Odioso forse
Vi riesce il volto mio? Perchè non dirlo

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Pria di darmi la destra? Abbiate almeno

Compassione per me, se non affetto.
Fatemi uscir da sì cruda incertezza2.
Matilde. Sento, nè so perchè, tremarmi il core:
Sento il sangue gelarsi, e innanzi agli occhi
Parmi un velo tener, che m’impedisca
A discerner gli oggetti. In tale stato
Un soave riposo mi potrebbe
Un conforto arrecar3.
Ormondo.   Andianne, o cara,
Sulle morbide piume; io pur ti4 seguo.
Matilde. Deh signor, se mi amate, in questa prima
Ora, in cui son vostra compagna e serva,
Concedete il favor che umil vi chiedo;
E se pena vi costa, il merto vostro
Meco sarà maggior.
Ormondo.   Voi mia sovrana,
Voi mia sposa e mia dea, chiedete; io tutto,
Tutto farò per voi.
Matilde.   Per questa notte
Deh lasciatemi sola.
Ormondo.   Ah con qual pena
Obbedirvi degg’io! Ma giusti Numi!
Son io forse cagion del vostro affanno?
Matilde. No; ma spero da quiete il mio conforto.
Ormondo. Grande sventura mia! Soffrirò dunque
Questo nuovo dolor?5 Ma voi soffrite
Ch’io v’accompagni almen sino alle vostre
Paterne stanze.
Matilde.   Ricusar nol deggio.
Partirete voi tosto?
Ormondo.   Ah sì, crudele,

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Sola vi lascierò; ma non sperate

Che più a lungo il mio amor soffra gl’indugi.
Matilde. (Verrà intanto la morte in mio soccorso). (a parte
(Preceduti dal paggio entrano nell’appartamento di Matilde, e la scena resta oscura.

SCENA II.

Enrico all’oscuro dall’appartamento reale, poi Ormondo che
torna all’appartamento di Matilde
.

Enrico. Sventurato amor mio, dove mi guidi?

Fra quest’ombre notturne, e qual presumi
Trovar raggio di luce alla tua spene?
Ah Matilde adorata, insin che altronde
Stassi per opra mia l’austero padre,
Favellarti potessi! Oh Dio! potessi
Toglier dalla tua mente il rio sospetto,
Onde Enrico infedel tu credi a torto.
Quest’è l’usata via de’ passi miei,
Quest’è la soglia...
(Mentre Enrico vuol entrare da Matilde, Ormondo l’incontra sulla porta.
Ormondo.   Olà. Chi sei? Che cerchi?
Non rispondi? Ribaldo, il ferro mio
(Ormondo impugna la spada, ed Enrico fa lo stesso
Ti scoprirà... Ma ti difendi e taci?
Traditor ti palesa il tuo silenzio.
(Enrico si ritira nel suo appartamento privato
Vieni, s’hai core... Ah mi fuggì l’indegno.
Il felice rival dell’amor mio
Questi sarà; questi sarà, che forma
Di Matilde il dolor. Scoperto il fato
M’ha l’arcano funesto. Oh me infelice!
Fremo di gelosia. Che fo? Che penso?
Sì, sì, mora l’indegna.
(in atto d’entrare nell’appartamento di Matilde

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SCENA III.

Leonzio dalla porta comune, preceduto da due paggi con torcie
accese, e detto.

Leonzio.   Ove sì ratto

Con denudato acciar?6 (i)
Ormondo.   Ah son tradito.
Leonzio.   Da chi?
Ormondo. Da vostra figlia.
Leonzio.   Oh Numi! E quale
Colpa commise mai?
Ormondo.   Col pianto agli occhi,
Qual vittima condotta al sagrifizio,
Meco venne dal tempio. Arte non valse
Per piegarla ad amar: chiese per dono
Di restar sola; io la compiacqui, e quando
Parto da lei, su questa soglia istessa,
Fra l’orror della notte, un uomo incontro
Che d’entrar facea possa. A lui m’oppongo,
Chiedo il nome, ei me ’l tace: impugno il ferro,
Esso ancora l'impugna, e si difende
Continuando a tacer. Da’ colpi miei
Si sottrae colla fuga. Il tempo, il loco,
L’ora, il silenzio suo, la fuga, tutto
L’onta mi scopre e l'offensor mi cela.
Leonzio. Qual parte aver puote Matilde in questo?
Ormondo. Qual parte? Come! La natura7, amore
Vi fan cieco cotanto? E forse oscuro
A qual fine colui venia furtivo?
Perchè sola restar volea Matilde?
E quel suo turbamento, e quel pregarmi
Di partir tosto, e quel mirarmi in volto
Quasi reo che di morte attenda il cenno,

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Chiare prove non son del suo delitto?

Leonzio. Deh non dite di più. Presto si oscura
D’una donna la fama. Olà, partite.
(Alli paggi, li quali prima di partire piantano le torcie in due torciere, e lasciano illuminata la sala.
Ritornate in voi stesso, ed apprendete
Quanto son vani mai tali sospetti.
La mestizia del volto, onde Matilde
Vi sembra rea, d’altra innocente fonte
Oggi deriva. Una fanciulla avvezza
A viver sempre in umil stato e sola,
Non si turba a ragion, qualor si vede
In braccio d’uom che non conosce appena?
Lo staccarsi dal padre è forse ingiusta
Cagion di pianto? Pretendete invano
Ch’una ritrosa figlia arda sì tosto
D’amor per voi. Il tempo, il tempo, amico,
Il gentil tratto e la saggezza vostra
Disporranla ad amarvi. Ah che piuttosto
La vostra diffidenza, il timor vostro
Le saranno cagion d’odio e dispetto!
Di timor in timor, di pena in pena
Condurravvi il sospetto, e incerto sempre
Del ver sarete; e come d’uom che sogna
Sarà il vostro veder, che troppo sono
Della immaginazion strani gli effetti.
Sogna talun che ha l’inimico a fronte,
Abbandona le piume e il ferro impugna,
E gira i colpi alle pareti e al vento.
Talun sogna un incendio, e il fuoco sente
E fugge, e corre, e dove trova il varco,
E sale, e scende, e precipizi incontra.
Sono larve coteste in chi sopiti
Nel sonno ha i sensi; ed un geloso amante
Sensi liberi ha forse? Ah che pur troppo

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Sogna, e travede la ragion che dorme.

Non vi vegga la sposa. Il vostro spirto
Ponete in calma. Non temete; io spero
Più tranquillo vedervi al nuovo giorno.
Parlerò con Matilde. I suoi pensieri
Saprò spiar. Riscalderò il suo cuore
Freddo ancora per tema; e non avrete
Ragion di dubitar. Ma voglio, amico,
Che scacciate dal sen l’ombre gelose.
Ormondo. Le scaccierò, quando Matilde in viso
Più tranquilla vedrò. M’ami la sposa,
Nè temerò di lei. Ma fin che dura
Dispettosa a fuggir gli amplessi, e come
Prevenuto il suo cuor non vuol ch’io creda8?
Leonzio. La vedrete cangiata.
Ormondo.   In voi confido.
(parte per la porta comune


SCENA IV.




Leonzio, poi Matilde dal suo appartamento.



Leonzio. Giovami serenar l’alma turbata
Dello sposo infelice. Ah che pur troppo
Veri son suoi sospetti. Enrico forse,
Cui non è noto che Matilde è sposa,
Tentò furtivo rivederla9 affine
Di levarla d’inganno. Ah figlia incauta!
Esser mi vuoi cagion d’eterno duolo10.
Matilde. Deh, se vi cal della mia pace, o padre,
Ditemi, che mai nacque? Intesi un fiero
Rumor di spade, un altercar di voci,
Che m’empiè di terror.

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Leonzio.   Sol qui venite

Allor qnuando partito è il vostro sdoso?
V’era pena il vederlo? Ah voi, Matilde,
Voi del regno sarete la ruina,
Voi d’eterno rossor a un padre afflitto11.
Matilde. Numi! per qual cagion? Non basta dunque
Soffocar i sospiri? Il facil pianto
A forza trattener? Contro me stessa
Tiranna trionfar? Darmi a uno sposo
Per altrui compiacenza? Oh Dio, che mai,
Per sicurar della sua pace il regno,
Per ubbidir del genitore al cenno,
Si vuol da me?12
Leonzio.   Rasserenata in volto
Veggavi il vostro sposo. All’amor suo
Con amor rispondete; i dolci amplessi
Alternate con esso; e oprate quanto
Basta a trargli dal seno i suoi sospetti.
Matilde. Che può mai sospettar?
Leonzio.   Molto a ragione13
L'odio vostro comprende. Egli paventa
D’alcun rivale. Già l’incauto Enrico
Venia poc’anzi, e sulla vostra soglia
Scontrollo Ormondo...
Matilde.   Ah che mai dite? Oh Cieli!
S’accostava l’indegno alle mie stanze?
Che pretende da me? Forse infedele
Seguita ad14 ingannarmi? Un nuovo oltraggio
È questo all’onor mio... Tutto di sdegno
Sento avvamparmi15 il sen.

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Leonzio.   Come l’amore,

Importuno è lo sdegno, e l’una e l’altra
Son passion perigliose. A voi sol basta
Che di lui vi scordiate, e che d’Ormondo
Secondiate l’affetto.
Matilde.   Assicurarlo
Saprò della mia fè.
Leonzio.   Figlia diletta,
Unica mia speranza, al sen vi stringo.
In questi ultimi dì del viver mio
Sarò per voi felice. Il vostro sposo
Vado a render tranquillo, e voi seguite
Della vostra virtù gli eroici moti.
(parte per la porta comune

SCENA V.

Matilde, poi Enrico donde si era nascosto16

Matilde. Ahimè, questa virtù quanto mi costa!

Enrico. (Amor, te invoco). (a parte
Matilde.   (Oh giusto ciel! Che miro?
Qui il traditor? Fuggasi il fiero incontro).
(in atto di partire17
Enrico. Deh fermatevi, o cara. A’ piedi vostri
Mirate un Re che v’ama, un Re che solo
Di piacervi desia. Deh sospendete
La sentenza fatal. Non siate tanto
Facile a dubitar della mia fede18.
Matilde. (Oh labbro mentitor!) (a parte
Enrico.   Sì, le apparenze
Colpevole mi fanno agli occhi vostri.

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Ma se chiaro vi fia l’alto disegno

Preso a vostro favor, vedrete, o cara,
Ch’io non errai. Voi della mia innocenza,
Voi del fido amor mio certa sarete.
Matilde. Deh partite, o signor, comunque siate
Colpevole o innocente.
Enrico.   Oh Dio! Matilde!
Dunque calmar non posso i turbamenti
Del vostro cuor? Qual ria sventura indegno
Della vostra fidanza oggi mi rende?
Io che arrischio per voi la mia corona,
Ed in periglio pongo la mia vita19
Per serbarvi la fede, io sarò dunque
Divenuto a’ vostri occhi odioso oggetto?
Matilde. (Ahimè! Troppo di forza han sul cor mio
Questi lamenti teneri... ah se l’odo20
Certo mi sedurrà!) Signor, a tempo
Queste vostre lusinghe or più non sono;
Più speranza non v’è che unir si possa
Il vostro col mio cor...21
Enrico.   Oh me infelice!
Che rovinosi fulmini son questi?22
Chi togliervi potrebbe all’amor mio?
Chi alla forza d’un Re d’opporsi ardisce?
Pria di perdervi, o cara, a ferro, a fuoco
Metterò il regno. Tremerà chi tenta
Dividervi da me.
Matilde.   Tutta la forza
Della reale potestà non basta
Per opporsi al mio fato. Or le menzogne
Inutili son meco. Io son già d’altri...
Sì, la sposa d’Ormondo in me vedete.

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Enrico. Come? Quando? Perchè? Barbara! Ingrata!

Mi schernite voi forse, o pur di fede,
Cruda, mancaste? Ah che il dolor m’opprime
Non resisto al gran colpo... Io già mi sento
Della morte l’orror scorrer ne’ visceri23.
Matilde. (Come finge l’infido!)
Enrico.   Ah stelle ingrate!
Leonzio traditor! Figlia spietata!
Tutti, ahimè! congiurati a danni miei...
Ma voi, voi che stamane a me giuraste
La vostra fè, voi mi tradite?
Matilde.   Ingiusto!
Io tradirvi? Son io la rea, l’infida?
Della vostra incostanza invan cercate
Simular il delitto. Agli occhi miei
Forse non crederò? Mal grado a quanto
Io stessa udii, vi crederò innocente?
No, Enrico, nol sperate: i sensi miei
Testimoni non son da porre in dubbio.
Enrico. E pur tradita v’han quei testimoni,
Che a voi sembran sì fidi.
Matilde.   E come? Io forse
Confermar non v’intesi il regio dono
Fatto a Costanza? Voi la destra e il core
Non prometteste a lei? La vostra fede
Data in pubblico avete, e v’impegnaste
Seguir la legge del monarca estinto.
Alla nuova regina e vostra sposa
Dato i sudditi vostri hanno gli omaggi;
Lo vidi io stessa. Fui presente io stessa
Al momento fatal di mie sventure.
Travidi forse? M’ingannai? Crudele,
Dite, dite piuttosto, che Matilde
Non doveva anteporsi a un regal trono;

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Nè fingete24 un dolor strano cotanto,

Nè fingete un amore inopportuno
Che mai forse vi calse. Eh confessate,
Che il desio di regnar più di Matilde,
Vi fa bella Costanza. Io compatisco
Questa vostra elezione; un regal serto25
Non dovevasi a me, nè un regal core.
Io fui troppo superba, allora quando
L’uno e l’altro sperai. Non dovevate
Lusingarmi così, lasciarmi immersa
Sì lungamente in cotanto errore26.
Con le lagrime agli occhi io già previdi
Che perdervi dovea. Spietato! allora
Che ad ogni evento mi giuraste fede,
Disperarmi era meglio. Avrei piuttosto
Il demerito mio compreso allora
Causa del mio destino. A voi serbato
Io questo core avrei27, se non la mano,
E questa man d’altri giammai non fora.
Or più a tempo non son le scuse vostre.
Sposa son io d’Ormondo; e perchè troppo
Sta in periglio mia gloria a voi dappresso,
Mi conviene partir. Soffrite in pace
Che da voi m’allontani, e che per sempre
Vi dica addio. (in atto di partire, poi si ferma
Enrico.   Deh un sol momento ancora
Restate, per pietade. Ah no, mia vita,
Non disperate un Re, ch’è più disposto
Il trono rovesciar che abbandonarvi.
D’ambizion mi tacciate? Io la corona
Preferir a Matilde? Ah quest’oltraggio
Troppo pesa al mio cor. Vedrete, o cara,

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Sì, vedrete s’io v’amo. Il regno tutto

Sconvolgerò, vendicherò col ferro
Di Ruggiero l’insulto. E se Costanza...
Matilde. Questo gran sacrifizio è troppo tardo.
Tutto è inutil per me. Pria dovevate
Togliermi altrui col farmi vostra: adesso
Che importa a me, che la Sicilia tutta,
E colei cui la man porger dovete,
Siano in cener ridotte? Io già non posso
Esser più vostra, e voi più mio non siete.
Ma se debole troppo io mi lasciai
Sedur da un’alta speme, avrò valore
Per occultarne il dispiacere almeno.
Sì, vedrà il nuovo re della Sicilia,
Che la sposa d’Ormondo ha già finito
D’esser d’Enrico la fedele amante.
(va frettolosamente nel suo appartamento

SCENA VI.

Enrico, poi Costanza dal suo appartamento'.

Enrico. Ma se avessi potuto... Ahimè, sen fugge;

Nè seguirla poss’io senza periglio
Dell’onor suo, dell’onor mio. Matilde,
Malgrado, oh Dio! de’ giuramenti nostri,
Siam divisi per sempre? Era illusione
Dunque la bella idea di possederti?
Ah mia bella crudel, quanto mi costa
L’averti amato! Mi rinfacci, ingiusta,
Di traditor, perchè con altra io fingo?
Io di te che dirò, sposa d’Ormondo?
Infelice amor mio, tanta sventura
Chi predetto t’avria? Che creder deggio

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Del core di Matilde? Al nuovo sposo

Disperata si dona, oppure amante?
Comunque sia, questo rivale odiato
Felice non sarà. S’io non possedo
Il bel sen di Matilde, altri nol goda;
Sì, vuo’ che pera Ormondo. Non lo scusi
Non saper ch’io l’amassi. Io vuo’ che provi
Parte di quel dolor che il cor m’opprime:
Una carcere chiuda il reo ministro
Di questa pena mia...
Costanza.   Signor, qual cura
Ruba il sonno a’ vostr’occhi?
Enrico.   Voi, Costanza,
Perchè in ora notturna errando andate?
Costanza. Non ritrova riposo un’alma amante.
Enrico. Ah, che pur troppo anch’io, d’amor ripieno,
Fuggo l’odiose piume ed il riposo28.
Costanza. Posso dunque sperar cotanto affetto
Nel bel core d’Enrico?
Enrico.   Anzi giammai
D’altro foco maggior non arse un core.
Costanza. Felice me! Che ritardate dunque
L’opra a compir? Se lo bramate, o caro,
Se vi piace così, pronta ho la mano.
Enrico. Costanza, addio.
Costanza.   Come! Fuggite adesso
Quel che pria desiaste? E che mai deggio
Creder di voi?
Enrico.   Che il più infelice al mondo
Non v’è, nè vi fu mai. Che sol la morte
Può dar fine al mio duolo, e che me stesso
Nello stato presente io non intendo.
(parte per l’appartamento reale

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SCENA VII.

Costanza sola.

Infelice Costanza! è ver, pur troppo!

Che l’estremo piacer confina spesso
Con l’estremo dolor. Qual alto arcano
Cela Enrico in que’ detti? Egli ad un tempo
Ama e desia, teme, dispera e piange.
S’ama Costanza, il disperarne è vano;
Se Costanza desia, vano è il timore.
Ah non son io del suo bel cor la fiamma.
Veggol pur troppo, e se giurommi fede,
Desio di regno e non amor l’indusse.
Ma si lusinga invano; esser non voglio,
Se non son l’amor suo, la sua fortuna.
Scoprirò la sua mente, e s’ei m’inganna,
Cader sopra di lui farò l’inganno.


Fine dell’Atto Terzo.

  1. L’edizione Bettinelli, 1740, aggiunge: Ah qualche arcano — Temo mi nascondiate.
  2. In luogo di questo verso, si legge nell’ed. Bett.: Ditemi la cagion del dolor vostro
  3. Bett.: Il riposo potria solo recarmi — Qualche lieve conforto.
  4. Bett.: vi.
  5. Nell’ed. Bett. c’è il punto fermo.
  6. Bett.: con il ferro alla mano?
  7. Bett.: Qual parte? Il sangue, la natura' ecc.
  8. Bett.: a fuggir gli amplessi miei, — Prevenuto il suo cuor forz è ch’io creda.
  9. Bett.: Venne furtivo a rinvenirla.
  10. Bett.: Ah questa figlia — Esser vuol la cagion del comun duolo.
  11. Bett.: Voi sarete il dolor di questo regno, — Voi sarete il rossor di vostro Padre.
  12. L’ed. Bett. aggiunge: Celar in petto — La più forte passion? Darmi a uno sposo — Sol per voi compiacer? Tanto non basta — Per sicurar della sua pace il Regno, — Per venerar del Genitore il cenno? — Leonzio. Tanto non basta ancor. Serena in viso — Veggavi il vosto sposo ecc.
  13. Bett.: Molto, e a ragione.
  14. Bett.: seguitar a ecc.
  15. Bett. accendermi.
  16. Bett.: poi Enrico dal suo appartamento privato, ove erasi nascosto.
  17. Bett. aggiunge: ed Enrico la trattiene.
  18. L’ed. Bett. aggiunge: s’alza.
  19. Bett.: Anzi la vita mia pongo in periglio.
  20. Bett.: Queste voci importune! Ah se più l’odo, — Forse ecc.
  21. Bett.: ed il mio core.
  22. Bett.: Che parole crudeli (oh Dio!) son queste?
  23. Bett.: nel seno.
  24. Così l’ed. Bettinelli: nell’ed. Zatta leggesi qui, e nel verso che segue, fingere
  25. Bett.: trono.
  26. Bett.: Ma non dovevi — Lusingarmi così. Voi non dovevi — Trattenermi cotanto in quest’errore.
  27. Bett.: Questo core averei.
  28. Bett.: odio il riposo.