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506 | ATTO TERZO |
SCENA III.
Leonzio dalla porta comune, preceduto da due paggi con torcie
accese, e detto.
Con denudato acciar?1 (i)
Ormondo. Ah son tradito.
Leonzio. Da chi?
Ormondo. Da vostra figlia.
Leonzio. Oh Numi! E quale
Colpa commise mai?
Ormondo. Col pianto agli occhi,
Qual vittima condotta al sagrifizio,
Meco venne dal tempio. Arte non valse
Per piegarla ad amar: chiese per dono
Di restar sola; io la compiacqui, e quando
Parto da lei, su questa soglia istessa,
Fra l’orror della notte, un uomo incontro
Che d’entrar facea possa. A lui m’oppongo,
Chiedo il nome, ei me ’l tace: impugno il ferro,
Esso ancora l'impugna, e si difende
Continuando a tacer. Da’ colpi miei
Si sottrae colla fuga. Il tempo, il loco,
L’ora, il silenzio suo, la fuga, tutto
L’onta mi scopre e l'offensor mi cela.
Leonzio. Qual parte aver puote Matilde in questo?
Ormondo. Qual parte? Come! La natura2, amore
Vi fan cieco cotanto? E forse oscuro
A qual fine colui venia furtivo?
Perchè sola restar volea Matilde?
E quel suo turbamento, e quel pregarmi
Di partir tosto, e quel mirarmi in volto
Quasi reo che di morte attenda il cenno,