Emma Walder/Parte prima/V
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V.
Fin da fanciullo, il giogo famigliare lo aveva torturato e depresso. I suoi genitori, ricchi fittabili e proprietari, lo destinavano alla carriera ecclesiastica, per non manomettere il patrimonio e fondare una grande famiglia, di cui, Giacomo, il loro primogenito, doveva essere il capo. Da lungo tempo Andrea Mandelli, campagnolo arricchito, vagheggiava questo ambizioso progetto. Era una di quelle idee fisse, del vecchio tempo, idee che contrastano con tutto un mondo rinnovato e che tuttavia persistono in certe famiglie di ricchi provinciali, e meglio ancora se campagnuoli. Istintivamente ostili a tutte le innovazioni che sorgono nei grandi centri, essi stanno aggrappati ai vecchi ruderi cerebrali — fossili del pensiero — come ai vecchi muri e alle vecchie terre, e tutto tramandano religiosamente di generazione in generazione.
Sotto l’Austria, i vecchi Mandelli avevano vagheggiato l’istituzione di un maggiorasco, come vedevano fare a certi nobili e come una legge speciale realmente concedeva ai proprietari di una molto rilevante somma di beni. I posteriori rivolgimenti politici, nè i codici diversi non poterono intaccare quella granitica testardaggine.
Anche senza il maggiorasco lo scopo si poteva raggiungere forzando i figli minori al celibato religioso. Il clero è sempre una porta aperta sul Medio-Evo. Senonchè, nel 1866, essendo fra i venti e i ventidue anni, i due fratelli, Giacomo e Leopoldo, lasciarono università e seminario per correre, ignari l’uno dell’altro, alla riscossa del Veneto e del Tirolo; uno con Garibaldi, l’altro con Vittorio Emanuele. Giacomo morì a Custoza. Così Leopoldo non ritornò più in seminario.
Egli però non rispose alle ambizioni della sua famiglia.
Non volle addottorarsi in legge, nè coprire alcuna carica pubblica, neppure quella di consigliere comunale. E si scusava dicendo che i suoi doveri di uomo e di semplice cittadino gli sembravano già abbastanza difficili; che se avesse accettato un incarico qualunque avrebbe voluto adempirlo scrupolosamente, mentre l’andazzo generale delle cose gliel’avrebbe reso quasi impossibile.
Spirito fine, reso fantastico e un po’ titubante dalla educazione di seminario, egli non aveva in realtà alcuna vocazione per la vita pubblica. La musica, la letteratura, le scienze astronomiche e la filosofia lo occupavano a sufficienza. Tanto perchè il padre avesse almeno la soddisfazione di un titolo, si addottorò in filosofia e lettere. Tornato a casa, non si dedicò in realtà che alla musica e all’azienda domestica che non era poca cosa quantunque la maggior parte dei terreni fosse affittata. Del resto la sua resistenza era sempre passiva: il silenzio era la sua forza. La maggiore energia l’aveva spiegata fuggendo dal seminario per andare in Tirolo con Garibaldi: sforzo inutile che aveva forse contribuito a renderlo dubbioso e poco intraprendente per tutto il resto della vita.
Intanto, la sua passione per la musica e le tendenze mistiche lo spinsero sempre più allo studio dell’organo.
Suo padre era fabbriciere nella vicina chiesa della Madonna dei Servi, e tutta la famiglia aveva contribuito a restaurarla e a provvederla di un bell’organo, di buona fabbrica.
Egli vi andava dunque come in casa propria.
Quando si trattò di aprire il concorso per avere un organista, egli offrì i suoi servigi gratis.
Da quel giorno l’appellativo di «organista» con cui il popolo già lo indicava, non lo lasciò più. Passò qualche tempo così. Poi, tutto a un tratto, addio organo, addio chiesetta solitaria, addio erudite disquisizioni col vecchio prevosto.
L’«organista» aveva incontrato Cleofe, e la passione gli era entrata nell’anima e nel corpo, sconvolgendolo, come un uragano.
Cleofe Celanzi era una giovinetta orfana di padre e di madre; bellissima e con una dote di centocinquantamila lire in terre e case.
Tutto andò per le piane. Il matrimonio fu presto celebrato, e Leopoldo potè credersi il più felice degli uomini, tanto più che nessuno lo contrariava oramai, ed era padrone di vivere secondo i suoi gusti.
Fece qualche viaggio, che non lo divertì molto, perchè la vita degli alberghi gli piaceva poco; meno ancora le visite e gl’inviti. Presto non si mosse più dal paese. Suo padre, intanto, vegeto e forte, si rassegnava ad attendere un nipote per concretare il sogno mandatogli a male dai figli.
A dicianove anni Cleofe era un occhio di sole, e quando i due sposi uscivano insieme a braccetto, i parenti provavano una orgogliosa soddisfazione, che ne valeva molte altre.
Passò il prim’anno, e invece del maschio ansiosamente atteso dal signor Andrea e dalle zitellone sacrificate alla futura gloria del casato, nacque una bimba, l’Annetta.
— Pazienza — disse il nonno — sarà il secondo.
Ma un altro anno passò, due, quattro.... e la signora Cleofe non accennò più a ritentare la prova della maternità.
In quel tempo, forse perchè si arrabbiava troppo, il vecchio morì di calcoli biliari. E la sua compagna, sbalordita da quella liberazione che le cadeva addosso come una tegola, si ripiegò su se stessa, illanguidì, perdette le forze, e morì consunta.
Rimasto solo padrone di una sostanza considerevole, Leopoldo parve a tutti l’uomo più invidiabile della terra.
— Gli manca l’erede maschio, è vero — dicevano le comari — ma ha tutto il tempo di procurarselo. È ancora tanto giovine e ha una sposina così fresca...
Se udiva tali discorsi, Leopoldo sorrideva di quel suo sorriso enigmatico, più triste di un singhiozzo. Gli mancava ben altro che l’erede maschio!...
Cleofe non l’amava; non lo aveva amato mai; era forse incapace di amare. Egli se n’era accorto a poco a poco, man mano che l’ubbriacatura dei sensi andava calmandosi in lui col possesso, e il bisogno di sentirsi veramente amato, il bisogno di un affetto più profondo e di una tenerezza più squisita, andava sorgendo nel suo animo nobile e delicato. No, essa non lo amava: non intendeva neppure ciò che egli aspettava da lei. Era una gaia compagna: una voluttuosa tranquilla e serena, con un fondo di egoismo, intangibile, di animale sano. Cento altri sarebbero stati felici con lei; non Leopoldo Mandelli.
Egli, tuttavia, non fiatò.
Abituato a dominarsi, pauroso di ogni scandalo, ripugnante a qualunque lotta esteriore, chiuse in sè la dolorosa certezza della sua felicità rovinata. Leggeva troppo chiaro nel cuore della sua compagna. A che pro chiederle ciò che non aveva?
Come accade sempre, il suo stato interno trapelò, per quanto egli si facesse forza e cercasse di chiudere nel fiero animo l’irreparabile dolore. Trapelò dalla fronte severa, dallo sguardo inconsciamente malinconico, dal sorriso troppo spesso stridente.
E questo stato interno, reagì di conseguenza sull’animo di sua moglie.
Essa pure si sentì delusa, disamata e infelice alle sua maniera; e accusò di ogni cosa il marito che dopo di averla adorata esageratamente, si era subito stancato, senza un apparente motivo: secondo lei, per puro capriccio. Certo non era donna da disperarsi. Fin da giovinetta aveva sentito dire che gli uomini, salvo qualche rara eccezione, erano su per giù tutti uguali: incontentabili, capricciosi, presto stanchi della moglie, e annoiati del matrimonio. Si rassegnò dunque di non aver trovato l’araba fenice, e cercò di dominare il suo padrone, rendendo la propria esistenza meno arida e noiosa, con l’aiuto della pazienza e dell’astuzia, come — seguendo le massime di una certa prudenza — ogni saggia donna dovrebbe fare.
L’abisso andò così scavandosi d’ora in ora tra i due incatenati.
Ma il peggio fu, allorché, morti i genitori, Leopoldo, ricco e indipendente, non volle saperne di lasciare il borgo nativo per la vicina città. Stabilirsi a Milano, brillare in una vera società elegante, fare la signora: tale il sogno di Cleofe. Vedersi così bella, sentirsi agguerrita e forte, e dover vegetare in quel piccolo paese, in una società quasi rustica! Le malinconie di Leopoldo, le bizzarrie fantastiche, la freddezza sempre maggiore, tutto ella avrebbe sopportato, e il pesante fardello le sarebbe parso leggerissimo, se egli avesse acconsentito a trasferirsi nella grande città, appagando il desiderio intenso di emergere e di godere che la divorava.
Leopoldo restò imperterrito, e, al solito, senza accettare apertamente la battaglia.
Eluse la questione, con abilità naturale al suo spirito, fingendo di non capire, lasciando cadere le conversazioni suggestive preparate di lunga mano.
Di un’altra cosa, egli si occupò invece. Fece uscire dal convento di Santa Chiara sua sorella Celeste già sul punto di pronunziare i voti: la dotò largamente, e la maritò a Marco Fabbi. Da vari anni i due giovani si amavano. Ma il vecchio Mandelli che non voleva saperne di queste nozze, aveva chiusa la ragazza in convento.
Leopoldo fu lieto di renderle la libertà e l’amore.
— Sta bene — dicevano i parenti più umani e la stessa Cleofe. — Leopoldo ha fatto, benissimo a levarla dal convento, poichè lei non ci stava volentieri. Ma che bisogno c’era di darle tanti denari?
— È pazzo — mormoravano i più severi. — Bisogna essere pazzi per dar tanti denari a una donna che va a portarli in un’altra casa.
Con lui, naturalmente, nessuno osava discutere. Il suo fare asciutto e tagliente oramai s’imponeva. Indifferente alle critiche che indovinava, pure non udendole, gustò per qualche tempo la suprema soddisfazione di avere resa felice una persona cara. Celeste glielo diceva sempre: «Io sono felice per te.»
Egli passava le più belle ore in quella casa, dove tutto spirava l’amore e la pace.
Fatalmente, dopo due anni, la Celeste morì dando alla luce il suo primo bambino. E dopo due mesi morì anche il bambino. Così Marco Fabbi ereditò dal figlio.
Allora l’uragano scoppiò in casa Mandelli e in casa Celanzi.
La signora Cleofe, profondamente irritata e messa su dalle zie e dalle cugine, scattò per la prima volta. Era stata troppo buona, troppo stupida! Avrebbe dovuto opporsi in tempo a quella pazza generosità. Aveva dimenticato di essere madre e lasciato spogliare la sua figliuola!... Così avaro con lei che lo pregava da tanto tempo di condurla un po’ a Milano, almeno per un carnevale, e così sprecone con gli altri!... Non l’aveva mai amata, no. Poteva ben dire che egli non l’aveva mai amata....
Una scena!
In questa occasione, Leopoldo conobbe tutto l’animo egoista e volgare della moglie e l’ultima illusione d’amore lo abbandonò.
Conobbe anche Marco Fabbi, buono e disinteressato.
— Riprenditi tutta la dote di tua sorella, ti prego! — gli disse il vedovo una mattina. — Io sono troppo stufo di questi pettegolezzi e degli sgarbi che mi fanno i Mandelli e i Celanzi insieme.... Meno Andrea il quale mi ha scritto anche l’altro giorno e mi è amico.
Leopoldo non volle riprender nulla.
Fabbi pensò di rimediarvi altrimenti.
Giunto l’anniversario di Annetta che compiva i sette anni, le presentò, da buon zio, la donazione di un fondo del valore di cinquantamila lire, metà della famosa dote.
Così finirono le chiacchiere con piena soddisfazione della signora Cleofe, che già da qualche tempo non si faceva più riguardo di andare a Milano quando le piaceva, e passarvi almeno due o tre mesi l’anno, in diverse riprese. Ci aveva dei parenti lontani, delle amiche, mille pretesti.
Leopoldo, sempre più chiuso in sè, sempre più indifferente, considerandola quasi come una estranea per il suo cuore, la lasciava fare, pur non osando rompere il vincolo già così lento e logorato; trattandola sempre con una certa apparenza di affetto, un po’ per la bimba, molto più per l’indole sua ripugnante a tutte le aperte lotte, ad ogni violenta soluzione di continuità, come egli stesso diceva.
Fu in quel tempo che egli trovò la piccola Emma abbandonata dai saltimbanchi. Ne fu commosso, intenerito. La prese con sè, la condusse in casa dicendo semplicemente:
— Ho trovato questa povera bimba abbandonata. Se nessuno viene a reclamarla, intendo che viva con noi, come una sorella di Annetta.
La signora Cleofe avrebbe voluto opporsi a tale risoluzione; senonchè, considerando che non le conveniva di provocare troppe discussioni e indagini, e che già troppe chiacchiere si facevano sul conto di lei e delle sue frequenti scappate a Milano, pensò di tacere e di trar profitto dalla nuova situazione creatale dal marito.
L’opinione pubblica è generalmente in favore delle vittime. Vilipendere i tiranni, compiangere gli oppressi si prestano tanto più volentieri, quanto minore è il rischio o il sagrificio personale a cui vanno incontro.
La signora Cleofe aveva tutto da guadagnare facendosi credere una moglie trascurata, tradita; una punire e premiare sono cose che rispondono agli istinti generosi dell’umanità: e i singoli individui vi madre offesa nelle sue più legittime suscettibilità; e non era donna da perdere l’occasione.
Si mostrò calma e rassegnata. Vestì la bimba raccolta come la sua, la condusse fuori con sè. A tutti quelli che gliene chiedevano la provenienza rispondeva semplicemente che suo marito l’aveva trovata sola e lagrimosa in piazza Castello dopo la fiera. I saltatori, che erano stati gli ultimi a andarsene, dovevano averla lasciata nella notte mentre dormiva.
Questo racconto, la signora lo faceva senz’ombra di malizia, con un’aria ingenua e dolce; ma con tale impronta di dolore nel volto e tale profonda angoscia nella voce, che la gente ne era commossa.
— Povera Cleofe! — mormoravano le amiche. — È abbastanza infelice perchè le sia lecito distrarsi un pochino.
E gli uomini:
— Birbone di un Mandelli!
E avrebbero pagato qualche cosa per conoscere la mamma di Emma, la supposta amante che doveva essere bellissima per avere allontanato Leopoldo dalla moglie già lei così bella.
Alcuni però, e Cleofe per la prima, facevano il conto che Emma aveva quasi l’età di Annetta. Bisognava dunque supporre che il tradimento fosse avvenuto proprio nei primi mesi. Cosa impossibile, perchè Leopoldo passava allora tutte le sue ore con la sposa.
La generalità umana è così fatta che il male non le sembra mai impossibile ed è pronta a credere le cose più fantastiche e assurde, purchè vili e abbiette; mentre per farle ammettere la verità di un’azione generosa, non basta che l’azione sia chiara e provata, no, bisogna che in fondo in fondo si possa attribuirla a un briciolo d’egoismo.
Sempre indifferente e sprezzante, il Mandelli lasciò che ciascuno si sbizzarrisse, contento che la bimba già tanto cara al suo cuore non venisse reclamata da alcuno.
Da parecchio tempo egli aveva riprese le sue abitudini, e molte ore della sua giornata erano dedicate agli studi prediletti, al pianoforte e all’organo della vicina chiesa.
Anche delle bimbe si occupava molto: le istruiva con amore e infinita pazienza. Ma Annetta non gli era sempre concessa.
La sua mamma trovava mille pretesti per tenerla sempre con sé. E spesso la conduceva a Milano o a Como dove lei aveva una amica intima e fedele.
La compagnia abituale dell’«organista» era dunque Emma. La bimba stava molto bene con lui.
Tutti abbiamo dei parenti che ci sono più estranei d’un africano: tutti incontrammo una volta nella vita, un estraneo, nel quale abbiamo sentito un fratello. Emma era come Leopoldo affettuosa, meditabonda, d’alto sentire, ed amava appassionatamente la musica.
Egli pensò di farne una pianista; ma si avvide subito che non poteva riuscire. La bimba aveva il gusto squisito, l’intellettualità delicata; disgraziatamente la sua pazienza si frangeva contro le difficoltà materiali. Non poteva studiare. Era un ingegno selvaggio. Faceva inutilmente sforzi inauditi per non dispiacere al «suo caro babbo» L’applicazione la rendeva ammalata. Lo sforzo la paralizzava. Non capiva più niente: pareva una cretina. Non perdeva però la coscienza della propria incapacità e se ne addolorava grandemente.
Leopoldo andava in collera qualche volta; poi si inteneriva e faceva di tutto per consolarla.
L’insegnamento musicale fu messo da parte. Ma ella continuò a passare ore ed ore presso all’organo e al pianoforte quando il babbo suonava.
Poi quando era sola, canticchiava a mezza voce i motivi più melodici con molta espressione e giustezza.
Imparò a leggere e a scrivere con grande facilità. La grammatica, la storia, la dottrina cristiana e l’aritmetica la trovarono riluttante. Imparò invece a parlare l’italiano benissimo, e in breve tempo, sebbene da principio non parlasse che un cattivo dialetto misto di francese e di parole tedesche o ungheresi, che nessuno capiva. A poco a poco dimenticò quelle parole, e allorchè il Mandelli, che se le era notate, gliene ripeteva alcune, ella non capiva più il loro significato.
Tanto meno intelligente, tanto meno dotata di perspicacia, d’intuizione e di fantasia, Annetta era una dottoressa in confronto di lei: ripeteva tutto come un bel pappagallo.
Una sera che il signor Leopoldo raccontò un fatto di storia patria, Annetta non capì nulla, mentre Emma ne afferrò subito il significato morale e non lo dimenticò mai più.
Allora egli si mise ad insegnarle la storia, così, parlando, narrando i fatti più commoventi e drammatici, commentando la vita dei personaggi più nobili e gloriosi; e la piccola allieva fissò nella memoria quei racconti, manifestando tutta la sua anima con impeti di entusiasmo per le azioni generose, di sdegno e di collera per le ingiustizie.
Quante belle ore passate così!
Quante tristezze, quante amare delusioni, quante acredini accumulate nel cuore dell’uomo, la bimba riesci a raddolcire, a calmare, con una sua parola!
Solo, nella chiesetta quasi buia, facendo scorrere le sue abili mani sul poderoso istrumento, Leopoldo riandava malinconicamente il passato della sua vita ancora giovine e rigogliosa, chiusa da un limite inesorabile.
Quanto aveva poco goduto i vantaggi della sua nascita e del suo stato di uomo ricco, intelligente e colto, altrettanto si sentiva staccare da tutto e quasi da tutti, in quella triste ora di prova. Cleofe gli era parsa odiosa anche in quella occasione, anche al letto di Annetta, nel suo amore materno, che pure era la sola cosa gentile e bella di cui fosse capace.
Da un pezzo egli non l’amava più; ma la memoria di quello che aveva sofferto per lei, poteva sempre irritarlo.
Specialmente quando la vedeva così bella ancora e capace di risvegliare in lui, corazzato, l’ardente desiderio di possederla, di accarezzarla, di ubbriacarsi al profumo di quella carne fresca e voluttuosa — il cuore freddo e vuoto di amore — egli sentiva fremere l’odio insieme allo sdegno.
Quante volte era fuggito, riluttante e vergognoso! Fuggito come un pazzo, imprecando. Ma non sempre fuggiva. Qualche volta era debole. E al risorgere della ragione gli pareva che tutto il suo corpo fosse contaminato da un contatto impuro che lo faceva rabbrividire.
E pensare che ella avrebbe potuto renderlo felice per tanti anni, con quella bellezza così resistente, con quella eterna giovinezza! Che gioia, che estasi, se fosse stata diversa nell’anima, se lo avesse amato!.....
Rimpianti ormai vani, assurdi. Li cacciava da sè, con disdegno, i vani rimpianti. Non più. Non più. Il latente odio si perdeva nella fredda indifferenza. La bella donna era morta per lui.
Fatalmente rimaneva la madre di sua figlia.
Ciò che lo affliggeva di più in quel momento era il destino di sua figlia. Quella donna gli aveva tolto ogni potere sulla figlia sua. Che cosa non può una madre sull’animo di una fanciulla? Annetta adorava la mamma pronta ad accontentarla in ogni capriccio. Per lui non aveva che parole rispettose e poche fredde carezze.
La madre le aveva insegnato a temerlo, forse a disprezzarlo. Una rappresaglia, una vendetta. E così a lui era tolto d’impedire che la sua creatura corresse a certa rovina. E di rimbalzo anche l’Emma doveva essere infelice.
Un impeto lo scosse; si battè la fronte con la mano convulsa.
— No, per tutti i santi del cielo! No!
L’impeto cadde ben presto.
La limpidezza della mente gli rivelò subito l’inutilità di quella sua nobile collera.
Che cosa poteva egli fare? Se Annetta fosse morta, sua madre l’avrebbe accusato di quella morte.
— Non avrò mai il coraggio di affrontare un simile rischio — pensò. — Sono un debole.
Allungò le mani su i tasti d’avorio; toccò i pedali.
Stanco di pensare e di combattere, il suo cervello passava quasi senza transizione nel mondo dei sogni sempre aperto alla sua fantasia.
Fissò gli occhi, impalliditi dalla veglia, nella luce rosea che batteva dolcemente alle vetrate del coro; e il suo volto s’illuminò; un vago sorriso sfiorò le sue labbra.
Il suo cuore accelerò i palpiti.
L’ispirazione zampillò improvvisa, spontanea, dall' anima dell’artista. Le mani agili volarono; le canne lucenti fremettero, come verdi canne in riva al fiume quando mugge il vento.
Strani accordi scoppiarono nel silenzio mattinale della navata. E dalle severe armonie si svolse una melodia grandiosa, dai contorni inafferrabili come il mistero della vita.