Elementi di economia pubblica/Parte seconda/Capitolo II
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Parte seconda - Capitolo I | Parte seconda - Capitolo III | ► |
Cap. II. — della piccola e grande coltura delle terre.
15. Abbiamo già veduto nella Prima Parte, Cap. I, come non sia precisamente la maggiore quantità assoluta e totale di prodotto quella che contribuisce alla prosperità di uno Stato, ma la maggior quantità di prodotto utile, vale a dire disponibile. Se una quantità di questo prodotto è consunta immediatamente dai producitori, non vi sarà che l’avanzo il quale abbia un valor venale, che paghi i salarj dei manifattori, che esca dallo Stato, che paghi i tributi, in somma che dia moto a tutta la macchina degl’interessi economici d’una nazione. Se, per esempio, sopra un milione di misure siano consunte in ispese immediate di produzione 500 mila di queste, non saranno disponibili che 500 mila misure di prodotti in vantaggio dello Stato. Ma se per lo contrario, mutando la coltura di direzione e di metodo, il prodotto non fosse che di 800 mila misure, e che solo 200 mila fossero le consumate immediatamente da’ produttori, l’avanzo sarebbe di 600 mila misure, cioè una maggiore quantità di prodotto disponibile nel caso di un minor prodotto reale, che nel caso d’un maggiore. Ciò dunque che deve formare l’oggetto principale dell’uomo di Stato e del grande economo-politico, non è tanto l’aumento del prodotto totale, quanto l’aumento del prodotto disponibile; non il raccolto assoluto, ma l’avanzo di detto raccolto, dedotte le spese.
16. Se dunque chi considera in astratto la perfezione dell’agricoltura trovasse il lavoro dei campi a braccia più produttivo del lavoro delle bestie, un tale risultato dovrà essere verificato dall’economo-politico, il quale esaminerà quanto maggiori spese esiga il mantenimento d’uomini lavoratori invece del mantenimento e profitto delle bestie lavoratrici. Se chiunque potesse essere sedotto dall’apparente abbondanza d’una terra, che successivamente ammetta in un anno varj generi di produzione, non calcolasse che questa sola abbondanza di tali produzioni, dovrà avere riguardo se questi generi diano un prodotto venale e disponibile, o un prodotto immediatamente ed unicamente consunto dai produttori medesimi. Se per alcune circostanze un terreno, che potrebbe rendere frumento, rendesse solamente grano di vile valore, consumato totalmente da un numero grandissimo di miseri agricoltori senza prodotto o avanzo netto e disponibile, nè in favore dei proprietarj, nè in favore de’ coltivatori medesimi, i quali con minori spese di coltura e con maggior avanzo di prodotto disponibile più felici sarebbero e più agiati, andrebbe calcolato il prodotto netto nel primo caso in paragone del prodotto netto del secondo.
17. Egli è sotto questo punto di vista che deve riguardarsi una famosa distinzione introdotta ultimamente dagli Economisti francesi nell’agricoltura. Distinguono essi la grande dalla piccola coltura. Chiamano gran coltura quella che è intrapresa da un comodo fittabile con un treno di cavalli, che paga il proprietario in danari disponendo del prodotto a proprio arbitrio; piccola coltura quella che è intrapresa da un massaro o pigionante, che divide il prodotto con il padrone, e coltiva co’ buoi. Io non darò qui che il succinto delle ragioni che quelli adducono in favore della gran coltura, lasciando a ciascheduno, come è di ragione, il determinarsi sulla considerazione delle proprie circostanze. Era importante, per altro, che in questi Elementi non si risparmiasse una discussione, la quale forma un ramo principale dell’economia politica delle nazioni agricole.
18. In primo luogo essi premettono, che i privati agricoltori dai soli risultati della propria sperienza non sono in istato di decidere se sia più utile la grande della piccola coltura; perchè, oltre il non sapere ordinariamente calcolare con precisione che i vantaggi della propria coltura a cui sono accostumati, l’essere introdotta in un tale distretto piuttosto l’una che l’altra non è un effetto della scelta e di un calcolo intieramente dipendente dalle personali circostanze di ciascheduno, ma dalle circostanze generali di tutto il distretto medesimo, dal valore de’ prodotti, dalla libera circolazione di quelli, dalla natura e metodo dell’imposizione, come si vedrà a suo luogo. Secondariamente egli è chiaro, che solamente forti e poderosi coltivatori sono atti ad intraprendere una gran coltura, perchè la spesa primitiva avanti di ottenere un raccolto è considerabile, quantunque questo raccolto sia poi più grandioso, e le spese annue e posteriori in paragone di quello proporzionatamente minori che non sieno nella piccola coltura, in cui pretendono che una gran parte del raccolto sia consunto in ispese continue per conservare la coltura, senza quasi mai speranza di aumentare il prodotto netto.
19. Ciò supposto, dicon essi che il lavoro dei buoi è molto più lento del lavoro de’ cavalli, e che questi passano un gran tempo ne’ pascoli per il loro nutrimento, di maniera che ad un podere che vuole essere lavorato da dodici buoi bastano quattro cavalli. Questi pascoli sono un terreno perduto in sola immediata consumazione; convengono però, che dove si usa di nutrire i buoi con foraggi secchi, vi è un miglior conto nel mantenimento de’ buoi lavoratori. Si pretende che i buoi siano più forti e robusti de’ cavalli; ma si adduce l’esperienza in contrario. Sei buoi conducono due o tre mila libbre di peso, mentre sei cavalli ne conducono sei in sette mila. Vuolsi distinguere la pianura dal montuoso; vuolsi distinguere il tirar con forza lungo una linea parallela all’orizzonte, e il sostenere più fortemente il peso in un pendío; vuolsi considerare che i buoi, essendo men carichi e più lenti, sembrano meglio riuscire de’ cavalli nelle terre pantanose, i quali sembrano più titubanti in un terreno non solido; ma ciò, secondo essi, è estraneo alla forza colla quale è necessario smovere la terra con l’aratro, la quale si può assomigliare ad un peso da strascinarsi.
20. Dicono essi, che i buoi in un giorno lavorano tre quartaja (quartiers) di terra, mentre i cavalli ne lavorano un moggio e mezzo; cosicchè, dove ci vogliono quattro buoi ad un aratro, vi andrebbero sei coppie per tre aratri, che lavorerebbero due moggia al giorno circa, invece che tre aratri condotti da tre cavalli per ciascheduno ne lavorerebbero quattro e mezzo al giorno; a sei buoi per aratro, due aratri lavorerebbero un moggio e mezzo, invece otto cavalli a quattro per aratro ne lavorerebbero tre; a otto buoi per aratro, tre aratri ne lavorerebbero due, invece che bastando quattro forti cavalli ad un aratro, ventiquattro con sei cavalli ne lavorerebbero nove: cosicchè, riducendo queste differenze ad un punto medio, il lavoro di dodici buoi per adequato equivale al lavoro di quattro soli buoni cavalli. Convengono però, che nelle terre ingrate e montuose sembra preferibile il lavoro de’ buoi a quello de’ cavalli, in grazie che le terre coltivabili essendo disperse in piccole porzioni, il maggior costo de’ cavalli e la piccola rendita necessariamente conseguente alla natura del suolo, rendono più utile il lavoro dei buoi, perciocchè si adoprano sotto aratri adattati ad una più corta estensione di terreno. Si aggiunge che le terre leggiere poco proprie a produrre dell’avena sono nell’istesso caso; ma poche sono quelle che siano talmente separate dalle buone e forti, soprattutto nelle pianure, che escludano il comodo mantenimento de’ cavalli; e siccome le terre sono confidate a piccoli massari o pigionanti per lavorarsi a buoi, per mancanza di buoni fittabili in istato di sostenere una grande ed estesa coltura co’ cavalli, i proprietarj non osano confidare delle pecore e de’ montoni ai suddetti, delle quali, oltre il frutto considerabile, è eccellente l’ingrasso. Con queste ed altre considerazioni (che ometto per brevità, lasciando a quelli che amano queste ricerche il consultare gli eccellenti scrittori, e soprattutto l’Enciclopedia, articolo Fermier) essi concludono, che quelle misure di terra che rendono quattro staia misura di Parigi coltivate coi buoi, rendono otto staia coltivate co’ cavalli. Aggiungono, che i buoi de’ massari appigionanti vengono occupati moltissimo al lucroso guadagno delle condotte in pregiudizio delle terre, le quali poi successivamente decadendo ad essere incolte dove è introdotto lo stentato lavoro della piccola coltura, divengono sempre in più gran quantità pascoli, vale a dire di gran lunga meno utili allo Stato ed ai proprietarj.
21. I suddetti autori calcolano le spese de’ buoi colla spesa de’ cavalli nella seguente maniera. Suppongono il valore d’un cavallo da lavoro l’un per l’altro 300 lire di Francia (il nostro zecchino è circa 10 lire di Francia), il valore d’un pajo di grossi buoi lire 400. Si pretende che li cavalli durano l’un per l’altro dodici anni, e i buoi sei anni, passati i quali si vendono magri per ingrassarli per la macelleria. Ciò supposto, quattro buoni cavalli costano lire 1200; l’interesse di questo capitale per dodici anni sono lire 720; dunque alla fine di questi anni si saranno spese e perdute lire 1920. L’equivalente di quattro cavalli sono, come si è asserito di sopra, dodici buoi; costeranno a lire 400 al pajo lire 2400; l’interesse per sei anni monta parimenti a lire 720; in tutto sono lire 3120. Ma si suppone, che si vendano dopo sedici anni magri per lire 150 l’uno; perciò si caverà da tutti lire 1800; restano perdute lire 1320 in sei anni; in dodici saranno 2640: dunque la spesa de’ buoi supera quella de’ cavalli, nello stesso spazio di tempo, di lire 720.
22. Queste, oltre moltissime altre ragioni, rendono certamente almeno problematica la preferenza de’ buoi sopra i cavalli per il vantaggio della coltura. Ma se io debbo azzardare la mia opinione in una questione intralciatissima per la varietà delle circostanze in cui ogni paese si trova, io credo che il punto essenziale per noi non sia quello di usare piuttosto de’ buoi o de’ cavalli, e che in ciò essenzialmente non consista la differenza fra la grande e la piccola coltura; ma piuttosto nell’essere le terre divise fra poveri massari e pigionanti, che non possono portare un capitale di ricchezza sulla terra che intraprendono a lavorare, e ricevono dai negligenti e dispendiosi proprietarj solo deboli scorte che esigono una folla di minute e mal adempite spese, onde si ricava uno scarso prodotto netto in favore de’ proprietarj, in alimento dell’arti, in sollievo delle spese pubbliche: in vece che la coltura de’ grossi fittabili è una coltura che porta sulla terra una ricchezza, che si aggiunge al valor capitale del fondo medesimo. Ma questa non s’introdurrà giammai, dove i generi siano a vil prezzo, dove l’utile non sia in paragone delle spese, perchè ivi non si ritrova un avanzo tale, che, oltre il mantenimento de’ proprietari e de’ coltivatori, possa essere rimesso con usura sulla terra.