Ecce Homo/a) L'origine della tragedia

a) L'origine della tragedia

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Friedrich Nietzsche - Ecce Homo (1888)
Traduzione dal tedesco di Aldo Oberdorfer (1922)
a) L'origine della tragedia
Perchè scrivo così buoni libri b) Le inopportune
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a) L’origine della tragedia.



1.


Per giudicare rettamente «L’origine della tragedia» (1872), bisogna dimenticare qualche cosa. Essa ha fatto un certo effetto, ha perfino affascinato con ciò che v’era in lei di errato, con la sua applicazione al wagnerismo, come s’esso fosse sintomo di qualche grande cosa che cominci. Appunto per ciò quest’opera rappresentò un avvenimento nella vita di Wagner: soltanto dopo la sua pubblicazione si cominciò a sperare molto dal nome di Wagner. E ancor oggi mi si ricorda nelle discussioni sul Parsifal: chè è veramente colpa mia se è prevalsa un’opinione così alta sul valore culturale di questo movimento. Ho visto più volte citata l’opera come «Rinascita» della tragedia dallo «spirito della musica»; si è badato soltanto alla nuova formola per l’arte, per le intenzioni, per lo scopo di Wagner, e non s’è osservato ciò che lo scritto nascondeva d’importante. «Grecità e pessimismo» sarebbe stato un titolo più preciso, poichè qui s’insegna per la prima volta come i greci si liberarono dal pessimismo, con che mezzi lo superarono..... La tragedia è la prova precisa che i greci non erano pessimisti; Schopenhauer s’è ingannato in questo riguardo come s’è ingannato sempre in tutto.

Considerata con una certa imparzialità l’«Origine della tragedia» appare assai poco corrispondente ai tempi in cui fu scritta: [p. 69 modifica]nessuno si sognerebbe di dire ch’essa fu cominciata fra il tonare della battaglia di Wörth. Ho approfondito questi problemi sotto le mura di Metz, nelle fredde notti di settembre, in mezzo alle occupazioni del servizio sanitario: si crederebbe quest’opera di cinquant’anni più vecchia. Essa è politicamente indifferente — non tedesca, si direbbe oggi — ha un ripugnante odore di hegelismo, e sole in certe formule è impregnata dal profumo mortoriante proprio di Schopenhauer. Un’«idea» — l’antitesi fra dionisiaco e apollineo — tradotta in linguaggio metafisico; la storia stessa considerata come lo svolgimento di quest’idea; nella tragedia, l’antitesi all’unità, soppressa; e sotto una tal luce, cose che non s’erano mai guardate in faccia, messe di fronte all’improvviso, illuminate, comprese l’una in grazia dell’altra..... Per esempio, l’opera e la rivoluzione.....

Delle due importanti innovazioni portate da questo libro, la prima è la interpretazione del fenomeno dionisiaco presso i greci — ne dà anche, per il primo, la psicologia; vede in esso una delle radici dell’arte greca — ; la seconda è l’interpretazione del socratismo: Socrate vi è riconosciuto per la prima volta come istrumento dello sfacelo della Grecia, come il tipo del decadente. La «ragionevolezza» opposta all’istinto. La «ragionevolezza» ad ogni costo è pericolosa, è una forza che distrugge la vita! Silenzio profondo, ostile, sul cristianesimo, in tutto il libro: esso non è apollineo nè dionisiaco; esso nega tutti i valori estetici, gli unici valori che l’«Origine della tragedia» ammetta; esso è nichilista nel più ampio significato della parola, mentre nel simbolo dionisiaco si raggiunge l’ultimo limite dell’affermazione. Una volta vi si allude ai sacerdoti cristiani come ad una «maligna razza di nani» di «esseri sotterranei». [p. 70 modifica]


2.


Quest’inizio è singolare oltre ogni dire. Avevo scoperto, per la mia intima esperienza, l’unico simbolo e paragone che la storia possegga, ed ero anche stato il primo a concepire il meraviglioso fenomeno dionisiaco. Nello stesso tempo, per il fatto che avevo riconosciuto Socrate per un decadente, avevo provato in maniera non dubbia quanto poco il mio istinto psicologico era minacciato da una qualunque idiosincrasia morale: la morale stessa considerata come sintomo di decadenza è un’innovazione, una particolarità di primo ordine nella storia della coscienza. Quanto alto era passato d’un salto, in tutt’e due i casi, al di sopra delle vuote ciance sull’ottimismo contro il pessimismo!

Io fui il primo a vedere la vera antitesi: l’istinto degenerante che si volge contro la vita con un oscuro desiderio di vendetta (il cristianesimo, la filosofia di Schopenhauer, in un certo senso già la filosofia di Platone e tutto l’idealismo, come forme tipiche) e una formola d’affermazione suprema nata dall’abbondanza, dalla sovrabbondanza, un affermare senza restrizioni anche il dolore, anche la colpa, anche tutto ciò che v’ha nella vita di strano e di enigmatico..... Quest’ultima gioiosissima, impetuosissima sfrenatissima affermazione della vita non è soltanto il più alto, è anche il più profondo intendimento esattamente confermato, e sostenuto dalla verità e dalla scienza. A nulla di ciò che esiste si può rinunciare, di nulla si può fare a meno; gli aspetti della vita negati dai cristiani e da altri nihilisti stanno infinitamente più in alto, nella gerarchia dei lavori, di quelli che l’istinto di decadenza può approvare, stimare buoni. Per comprendere ciò occorre del coraggio; e, condizioni per il coraggio, un accesso di forza: chè proprio a seconda [p. 71 modifica]della distanza fino alla quale può spingersi il coraggio, proprio a seconda della misura della forza, ci si avvicina più o meno alla verità. La conoscenza, l’affermazione della realtà è per l’uomo forte una necessità; precisamente come per il debole, in causa della debolezza, sono una necessità la vigliaccheria e la fuga di fronte alla verità: cioè l’«ideale»..... Non è loro concesso di conoscere: i decadenti hanno bisogno della menzogna, essa è per loro una condizione di vita. Chi non solo intende il significato della parola «dionisiaco», ma anche vi ritrova sè stesso, non ha bisogno che gli si confutino Platone o il cristianesimo, o Schopenhauer: egli sente all’odore la putrefazione.....


3.


Fino a che punto io avevo trovato con ciò il concetto di «tragico», la nozione definitiva di ciò che sia la psicologia della tragedia ho detto anche ultimamente nel Crepuscolo degli idoli a pagina 139: «L’affermazione della vita, anche nei suoi più strani, più ardui problemi, la volontà di vivere godendo del sacrificio dei più alti tipi prodotti dalla sua inesauribilità», questo era per me dionisiaco, era il ponte di passaggio per giungere alla psicologia del poeta tragico. Non per liberarsi dal timore e dalla pietà, non per purificarsi da una passione pericolosa con un gesto violento — in questo senso l’interpretò, male, Aristotele — ma per essere egli stesso, al disopra del timore e della pietà, l’eterna gioia del divenire, quella gioia che chiude in sè anche la gioia della distruzione. In questo senso ho il diritto di considerarmi il primo filosofo tragico, cioè il perfetto contrapposto d’un filosofo pessimista. Prima di me questo passaggio dell’emozione dionisiaca in un’emozione filosofica non c’è: manca la sapienza tragica: ne ho cercato invano le tracce anche fra i grandi filosofi greci, quelli dei due secoli avanti Socrate. Un dubbio mi restava a proposito di Eraclito, in vicinanza del quale [p. 72 modifica]mi sento più caldo, più a mio agio che in qualunque altro luogo. L’affermazione dell’annientamento e della distruzione — ciò che più importa in una filosofia dionisiaca — l’accettazione dell’opposizione e della guerra, il divenire con radicale denegazione perfino del concetto dell’«essere», in ciò devo riconoscere, in ogni caso, quello che fu pensato finora di più vicino alle mie idee. Potrebbe darsi che la dottrina dell’«eterno ritorno», cioè, del fatale, infinito ripetersi di tutte le cose — questa dottrina di Zarathustra — in fin dei conti fosse già stata insegnata. Almeno, la Stoa, che ha ereditato da Eraclito quasi tutte le idee fondamentali ne conserva qualche traccia.


4.


In quest’opera si manifesta una gigantesca speranza. In fine, non c’è nessuna ragione perchè io debba rinunciare a sperare in un avvenire dionisiaco della musica. Gettiamo lo sguardo un secolo avanti a noi, ammettiamo che il mio attentato contro due millennii di violazione della natura e dell’umanità, riesca. Quella nuova parte della vita, che avrà il più alto di tutti i còmpiti: il perfezionamento dell’umanità — compresa la distruzione, senza pietà, di tutto ciò che v’ha di degenerato e di parassitico — renderà ancora possibile quell’eccedente di vita da cui dovrà rinascere anche lo stato dionisiaco. Io prometto l’avvento d’un’êra tragica: l’arte più sublime nell’affermazione della vita, la tragedia rinascerà quando l’umanità, senza soffrirne, avrà dietro a sè la coscienza di aver sostenuto le guerre più dure, ma anche più necessarie.....

Uno psicologo potrebbe anche aggiungere che ciò che ho udito io nella mia gioventù, ascoltando la musica di Wagner, non ha proprio nulla a che fare con Wagner; che, quando descrivevo la musica dionisiaca, descrivevo quello che io avevo sentito, che [p. 73 modifica]istintivamente io dovevo ridurre e trasfigurare ogni cosa a somiglianza del nuovo spirito che portavo in me. Una prova di ciò forte come può esserlo soltanto una prova, è il mio libro «Wagner a Bayreuth»: in tutti i passi psicologicamente più importanti si parla soltanto di me; senza alcuno scrupolo si può sostituire il mio nome o la parola «Zarathustra» da per tutto dove il testo reca il nome di Wagner. Tutta l’immagine del poeta ditirambico è l’immagine del poeta preesistente di Zarathustra, disegnata con immensa profondità e senza il minimo punto di contatto con la realtà wagneriana. Wagner stesso lo comprese: egli non potè riconoscersi nella mia opera. Frattanto, «il pensiero di Bayreuth» s’era trasformato in una cosa che non deve riuscir difficile ad indovinare ai conoscitori del mio Zarathustra: in quel grande meriggio in cui gli eletti fra gli eletti si consacrano al più alto di tutti i doveri.

Chi sa? È, forse, la visione d’una festa cui mi sarà dato di assistere.... L’enfasi delle prime pagine appartiene ormai alla storia; lo sguardo di cui si parla a pagina 7 è proprio lo sguardo di Zarathustra; Wagner, Bayreuth e tutte le altre insignificanti inezie tedesche sono una nube in cui si rispecchia un infinito miraggio del futuro. Anche psicologicamente tutti i tratti caratteristici della mia propria natura sono attribuiti a quella di Wagner: cioè, la coesistenza delle forze più nobili e delle più fatali, la volontà di potenza in un grado in cui mai l’ebbe nessun uomo, un coraggio senza freno nelle cose dello spirito, un’illimitata forza d imparare, che però non deprime la volontà d’agire.

Tutto, in quest’opera, pare preannunciare qualche cosa: la prossima rinascita dello spirito greco, la necessità di anti-Alessandri capaci di rifare il nodo gordiano dopo ch’è stato sciolto.... Si noti l’accento veramente universale con cui a pagina 30 s’introduce il concetto di «sentimento tragico»: in quest’opera ci sono veramente degli accenti universali. Quest’è l’«oggettività» più strana che si possa immaginare: la certezza assoluta di ciò che io sono si rifletteva su una qualunque realtà casuale. La verità [p. 74 modifica]sul conto mio parlava da una profondità spaventosa. A pagina 71 è descritto anticipatamente, con una sicurezza incisiva, lo stile di Zarathustra; e mai si troverà un’impressione più grandiosa del fenomeno Zarathustra — di quest’atto di prodigiosa purificazione e consacrazione dell’umanità — che quella che si legge a pagg. 43-46.