Duemila leghe sotto l'America/XXIII. Un battello abbandonato
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CAPITOLO XXIII.
Un battello abbandonato.
Non c’era più da dubitare. Uno o più uomini precedevano l’ingegnere e i suoi intrepidi compagni nelle viscere della terra. Chi erano? Quale scopo li spingeva ad affrontare i pericoli di quello straordinario viaggio? Andavano anch’essi in cerca dei tesori degli Inchi? Oppure erano scienziati che cercavano di strappare alla terra nuovi segreti?... E perchè avevano assassinato quel negro?... Erano lontani o erano vicini?... C’era da sperare, da quegli sconosciuti, un aiuto, oppure da temere un pericolo?...
I cercatori dei tesori, sorpresi da quella scoperta, si guardavano in viso l’un l’altro senza parlare. Una sorda collera bolliva nei petti di Burthon, di O’Connor e di Morgan e si rifletteva nei loro occhi.
— Preceduti! esclamò il meticcio coi denti stretti. Ma da chi?
— Chi può dirlo? rispose sir John incrociando le braccia.
— Da degli scienziati no di certo, disse Morgan. Non avrebbero assassinato quest’uomo.
— Che i tesori degli Inchi siano in pericolo? disse O’Connor. Bisogna assolutamente raggiungere gli uomini che ci precedono.
— Sì, sì, bisogna raggiungerli! esclamò Burthon.
— Sentiamo, signore; da quanti giorni quest’uomo è morto? chiese Morgan.
— Da sei od otto, rispose sir John.
— Il nostro battello fila come una rondine. Partiamo subito e forziamo la macchina.
— Sì, partiamo, dissero Burthon e O’Connor.
— Quanto carbone abbiamo? chiese l’ingegnere.
— Quattro tonnellate, rispose Morgan.
— Gettiamo nel fiume questo povero negro e poi partiamo.
Il meticcio e O’Connor afferrarono pei piedi e per le braccia l’assassinato e dopo averlo fatto dondolare un po’ lo gettarono in acqua.
L’Huascar virò subito di bordo e rimontò rapidamente la corrente del fiume. Ben presto la sua velocità da sette nodi saltò sui quattordici. O’Connor e Morgan però continuarono a cacciar carbone nel forno, volendo raggiungere i quindici e possibilmente anche i sedici.
Tutta la notte il battello continuò a salire la negra fiumana senza che accadesse nulla di notevole. Alle sette antimeridiane aveva percorso più di cento miglia.
— Se la velocità non scema, disse l’ingegnere a Burthon, in pochi giorni attraverseremo l’intera America del sud.
— Dove siamo ora?
— Se i miei calcoli sono giusti, dobbiamo trovarci presso la frontiera meridionale del Messico. Prima di mezzodì noi navigheremo sotto il Guatimala.
— La galleria adunque passerà sotto l’istmo di Panama.
— Pare che sia così.
— Che l’abbiano già passato gli uomini che ci precedono?
— Se hanno un battello pari al nostro a quest’ora saranno presso il Perù.
Alle 10 l’Huascar, che divorava la via senza perdere un centimetro della sua velocità, entrava in un vasto lago che il documento segnava. La vôlta era altissima, tanto alta che la luce delle lampade non giungeva a rischiararla ed era sostenuta da colonne così grosse che dieci uomini non sarebbero stati capaci di abbracciare.
Numerosi torrenti l’alimentavano e scendevano con tanta furia da sollevare delle vere onde. O’Connor, che non dimenticava la provvista dei viveri, gettò parecchie volte degli ami e riuscì a pescare tre o quattro anguille molto grosse, ma come gli altri pesci prive affatto degli occhi.
A mezzodì l’Huascar entrava in un nuovo fiume, anche questo segnato sul documento, che scendeva dal sud. Era molto meno largo dell’altro ma assai più profondo. Lo scandaglio diede sessantadue piedi.
Il 22, il 23, il 24 e il 25 il battello continuò avanzare. Il 26, nelle prime ore del mattino, il fiume improvvisamente si restrinse e la sua corrente divenne più rapida. Gettato lo scandaglio si constatò con inquietudine che c’erano solamente sette piedi d’acqua.
L’ingegnere osservò il documento e s’avvide che quel corso d’acqua stava per terminare. Quella scoperta lo sgomentò.
— Cosa si troverà dopo questo fiume? si chiese egli. Bisognerà abbandonare il battello?
L’indomani il fiume tornò a restringersi fra due sponde piuttosto basse ma irte di giganteschi massi di granito. Non aveva più di quattro metri di larghezza e l’acqua era così bassa da temere che da un istante all’altro la chiglia dell’Huascar toccasse. La corrente tuttavia scendeva con molta furia trascinando gran numero di pietre di non piccola mole.
Alle 11 Morgan per consiglio dell’ingegnere moderò la velocità. Era tempo! Pochi minuti dopo l’Huascar toccava il fondo e con tale violenza che sir John e i suoi compagni caddero l’un sull’altro e una lampada si spense.
— Per l’Huascar è finita, disse Morgan con dolore.
— Cosa facciamo? chiese Burthon.
— Tu e O’Connor rimarrete qui per ora, disse sir John. Io e Morgan costeggieremo il fiume finchè troveremo la galleria che vedo segnata sul documento. Seguimi, macchinista.
— Prendiamo un revolver, signore, disse il macchinista. Non dimentichiamoci che degli uomini ci precedono.
Il battello a forza di remi fu spinto sotto la riva e i due esploratori, munitisi ognuno d’una lampada, un solido bowie knife e d’un eccellente revolver di grosso calibro, s’arrampicarono su per la sponda.
S’arrestarono un istante sulla cima d’una roccia tendendo gli orecchi, poi, rassicurati dal profondo silenzio che regnava sotto la galleria, si misero in cammino seguendo la riva del fiume, calpestando un terriccio composto di avanzi di piante e di conchiglie.
Avevano percorso ottocento o novecento metri, quando sir John improvvisamente si arrestò puntando il revolver.
— Guarda, Morgan, mormorò. C’è un uomo laggiù!
Morgan sporse innanzi la lampada e guardò verso il luogo designato. Un uomo di alta statura, vestito di panno oscuro e con lunghi stivali, giaceva, steso sul dorso, presso la sponda del fiume.
— By-god! esclamò il macchinista. Chi può essere?
— Senza dubbio uno di quelli che ci precedono. Sta attento che qualcuno non ci salti addosso.
— Il mio revolver è pronto.
— Olà, svegliatevi! gridò sir John.
Lo sconosciuto non si mosse. L’ingegnere raccolse un ciottolo e glielo tirò in un fianco ma non ottenne miglior successo.
— Che sia morto? disse Morgan.
— Lo temo, macchinista. Andiamo a vedere.
Tenendo sempre i revolvers in pugno, s’avvicinarono con precauzione allo sconosciuto che non dava segno di esser vivo. Quando giunsero presso a lui entrambi fecero un passo indietro soffocando a stento un grido.
Quell’uomo — un negro di statura gigantesca, somigliantissimo a quello che avevano pescato pochi giorni innanzi — era morto. Aveva gli occhi stravolti, una bava rossa sulle labbra, e in mezzo al petto, confitta fino all’impugnatura, una navaja spagnuola.
— Un altro negro assassinato! esclamò l’ingegnere. Chi sono mai gli uomini che ci precedono?
— Dei briganti senza dubbio, disse Morgan, e che forse come noi vanno in cerca dei tesori degli Inchi. Non mi dispiace per me, ma per gli sfortunati compatriotti di Smoky.
— Dà uno sguardo al fiume e poi andiamo innanzi. Sono impaziente di conoscere le canaglie che ci precedono.
Morgan si arrampicò su una roccia che cadeva a piombo nelle acque. Aveva appena raggiunta la cima che si mise a gridare:
— Accorrete, signore! Accorrete!
Sir John in pochi salti raggiunse il macchinista. Proprio sotto quella roccia egli vide un battello fornito di macchina e carico di barilotti e di casse, alcuna delle quali aperte e vuote.
— Un battello qui! esclamò al colmo dello stupore.
— E un battello a vapore, aggiunse Morgan, e un po’ più grande dell’Huascar.
— Rimani qui che io vado a visitarlo.
Sciolse una solida corda che portava attorno ai fianchi, la legò ad una sporgenza della roccia e lentamente si calò nel battello che era profondamente incagliato nelle sabbie.
Se quello che l’ingegnere aveva fatto costruire a Louisville era riuscito un vero capolavoro per resistenza, comodità, rapidità e leggerezza, quello che i misteriosi assassini dei due negri avevano abbandonato sotto quella rupe, nel confronto non la cedeva. Era tre piedi più lungo dell’Huascar e come questi costruito a pezzi, che permettevano, all’occorrenza, di smontarlo interamente e in soli pochi minuti, leggero assai, solidissimo, tutto in acciaio, ad elica e munito di una macchina verticale di molta potenza.
A bordo non c’era nessuno, ma conteneva diversi oggetti, che l’ingegnere esaminò attentamente colla speranza di trovare qualche indizio che gli permettesse di scoprire il nome o almeno la provenienza degli sconosciuti che lo precedevano nelle viscere della terra. C’erano due cassette senza marca contenente dei cartocci di polvere e delle cartuccie, due altre cassette contenenti alcune grosse vesti di panno azzurro, una quinta affatto vuota, un barilotto contenente pochi litri di wisky, un altro con alcune libbre di carne secca e pochi biscotti, un sacchetto di pemmicam, dieci o dodici chilogrammi di carbon fossile, un fucile a due colpi ancora carico, due vecchie pistole pure cariche, una navaja, due picconi, una scure, due bussole rotte e una lampada di sicurezza colla rete metallica schiacciata. Nessuna carta e nessun nome su quegli oggetti.
L’ingegnere esaminò la macchina e scoprì un nome inciso su una laminetta di acciaio.
«W. J. Hansom-Boston» lesse.
— Chi è questo Hansom? mormorò. Sono bostoniani forse gli uomini che ci precedono? Che non riesca io a spiegare il mistero?
Cercò dappertutto sperando di trovare qualche altro nome, ma senza risultato.
— Avete scoperto nulla? chiese Morgan.
— Non so altro che la macchina fu costruita a Boston, rispose sir John. Continuiamo l’esplorazione.
Si aggrappò alla fune e risalì la sponda rimettendosi subito in cammino col macchinista.
Percorsi sette od ottocento passi tornarono ad arrestarsi. Dinanzi ad essi si ergeva una roccia enorme da una spaccatura della quale usciva impetuosamente e con un sordo muggito, un grosso getto d’acqua. Era la sorgente del fiume.
L’ingegnere osservò il documento e piegò a sinistra inoltrandosi in una galleria molto stretta e non più alta di tre metri. Ben presto giunse dinanzi ad una negra apertura che scendeva quasi verticalmente nelle viscere della terra. Al di là di quel pozzo non c’era alcun passaggio.
— È per di qui che dobbiamo scendere, disse a Morgan. Ritorniamo a prendere i compagni.
Uscirono dalla galleria e costeggiando il fiume raggiunsero Burthon e O’Connor che furono subito informati della scoperta del battello e del secondo cadavere.
I bagagli furono preparati. Ognuno non superava i trentacinque chilogrammi e componevasi di cinque chilogrammi di pemmican, sei di biscotto, tre chilogrammi di carbone, della cioccolatta, cinque chilogrammi d’olio per le lampade, d’un rotolo di corde, d’una pentola, d’una lampada di sicurezza, di tre litri d’acqua, d’un piccone, d’un coltello, d’un revolver, d’una bottiglia di wisky, d’una coperta e d’un termometro. L’ingegnere aggiunse al suo, un manometro e un apparato Rouquayrol, dopo aver rinnovato l’aria del serbatoio.
Morgan, Burthon e O’Connor rifiutarono di caricarsi dei loro apparati.
— Partiamo, disse sir John.
— Una spiegazione prima, disse Morgan. Vi ricordate signore dello stretto tunnel che abbiamo attraversato?
— Sì, ma perchè questa domanda?
— Per far passare l’Huascar, signore, abbiamo dovuto rompere degli ostacoli. Io vorrei sapere in qual modo è passato il battello degli uomini che ci precedono, che come avete visto è più grande del nostro.
— La risposta non è difficile, Morgan. O lo hanno smontato o sono passati per un’altra via.
— Sono soddisfatto, signore.
— Avanti, amici.
Diedero un ultimo sguardo all’Huascar solidamente incagliato nelle sabbie del fiume e si diressero verso la nuova galleria. Alle 4 del pomeriggio essi si arrestavano dinanzi al pozzo.
O’Connor sciolse una fune lunga diciotto metri, legò un capo alla sporgenza d’una rupe e gettò l’altro nel vuoto.
Morgan si offerse di scendere pel primo. Si appese una lampada alla cintura, si mise fra i denti un solido bowie-knife, si aggrappò alla fune e cominciò la discesa guardando attentamente le rocce che lo circondavano e il fondo del pozzo. L’ingegnere, Burthon e O’Connor videro la lampada a poco a poco allontanarsi, il cerchio di luce restringersi e finalmente sparire.
Poco dopo la fune provò una forte scossa.
— Ha toccato terra, disse sir John.
Calarono i bagagli poi, prima Burthon, secondo O’Connor e terzo l’ingegnere, raggiunsero il macchinista.
— Hai udito nessun rumore? chiese sir John.
— Nessuno signore, rispose Morgan.
— Bene amici, riposiamoci alcune ore; dopo ci metteremo in marcia.
O’Connor aiutato da Burthon accese, non senza fatica, alcuni pezzi di carbone, e mise a bollire una pentola contenente alcuni legumi secchi e un po’ di pemmicam.
Divorato il magro pasto e fatta una pipata, l’ingegnere, Morgan e O’Connor si stesero sulla loro coperta e chiusero gli occhi sotto la guardia di Burthon a cui spettava il primo quarto.