Donna Paola/Molti anni dopo
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Molti anni dopo.
Francesco II aveva dato la costituzione e quindi l’amnistia; gli emigrati napoletani, a cui l’esilio era duplice dolore, ritornavano, dopo dodici anni, in patria, vinti da una irresistibile nostalgia. Il quindici di agosto, giorno dell’Assunzione, era tornato in Napoli un emigrato di Terra di Lavoro, partito studente, nel ’48 e da paesi assai lontani portava seco la moglie giovane, straniera, e una figliuolina di quattro anni. Ora, a Napoli, egli prevedeva rivolgimenti, tumulti e sangue; e pensò a mettere in sicuro la moglie e la bambina. Così le condusse in Terra di Lavoro, a Ventaroli, nella casa paterna, le raccomandò ai suoi parenti e ripartì per Napoli.
Nè voi troverete Ventaroli sulla carta geografica. Ventaroli è anche meno di un villaggio, è un piccoletto borgo sulla collina, più vicino a Sparanise che a Gaeta. Vi sono duecento cinquantasei anime, tre case di signori, una chiesa tutta bianca e un cimitero tutto verde: vi erano allora un gobbo idiota, una vecchia pazza e un eremita in una cappelluccia, nella campagna: il nome del paese era inciso grossolanamente sopra una pietra: i protettori sono i SS. Filippo e Giacomo, la cui festa ricorre il primo di maggio; la protettrice è la Madonna della Libera, che sta nella cappelluccia dell’eremita. A Ventaroli ci si alza alle sei del mattino, si mangia a mezzogiorno, si dorme, si passeggia, si cena alle sette e si ridorme alle otto. Alla mattina vi è la messa; alla sera il vespro e il rosario. Verso l’imbrunire è un gran grugnito di maialetti che ritornano dal pascolo; e un mormorio di voci umane, strilli di donna e pianti di fanciulletti. Il parroco, don Ottaviano, uomo bruno e segaligno, era propriamente cugino dell’emigrato e capo della prima famiglia del paese.
⁂
Ora, dopo tre giorni, la fortezza di Capua si chiuse e le comunicazioni fra Napoli e la Terra di Lavoro furono interrotte. L’emigrato non seppe più nulla della sua famiglia; e la moglie e la figliuolina restarono nel villaggio, straniere, parlanti male l’italiano, tra parenti non malevoli, ma rustici. A Ventaroli arrivarono notizie vaghe, paurose: si avanzavano i Garibaldini, si avanzavano i Piemontesi, ma le truppe borboniche tenevano tutta la campagna. Il parroco, che era anche consigliere comunale, cominciò ad intimidirsi: la moglie dell’emigrato, sua cognata, la dama straniera, Cariclea, dovette dargli coraggio, ogni sera nelle conversazioni dopo cena; ma ogni mattina ricominciavano i terrori di don Ottaviano. Nè aveva torto: verso i venti di settembre s’intese nella valle un gran rumore di trombe, di cavalli, di soldati, e un distaccamento di Svizzeri venne ad accamparsi in Ventaroli. Nel cortile dell’unico palazzo, quello di don Ottaviano accamparono duecento fra soldati e ufficiali.
Furono ospiti terribili. Gli ufficiali svizzeri erano buoni e cortesi, assuefatti oramai alla dolcezza della vita napoletana, avendo lasciato a Napoli casa, famiglia, figliuoli, amici: addolorati di quella guerra che sentivano inutile, addolorati per quella causa che sentivano perduta: ma i soldati non tolleravano più freno di disciplina, erano diventati ribelli a ogni ordine, si abbandonavano alla ubbriachezza, al gioco. Dopo tre giorni avean consumato tutto il vino, tutto l’olio, tutta la farina di don Ottaviano: e chiedevano ancora, insolentemente, bastonando i contadini, sgozzando le galline. Le vecchie zie, le donne antiche di casa, stavano chiuse nello stanzone di famiglia; tacevano, non osando neppure filare, pregando mentalmente. Le serve erano in cucina, intorno a certi caldaioni dove cuocevano i maccheroni che non bastavano mai. Tutta la notte era un cantare, un urlare, un litigare: don Ottaviano, chiuso nella stanzetta, leggeva ad alta voce i salmi penitenziali, per quietarsi o per stordirsi, ma non poteva dormire, il poveretto. Ma la più forte, sebbene la più minacciata, era la signora Cariclea, la moglie dell’emigrato. Lo sapevano bene, i soldati, che era la moglie di un cospiratore, di un nemico, di uno che aveva tolta Napoli a Francesco II: e ogni volta che ella compariva sulla terrazza o attraversava il cortile, vi era un mormorio crescente di ostilità. Ella passava, quieta, serena, come se niente fosse, e pareva non udisse che la chiamavano moglie di brigante, moglie di assassino. Se ne lagnava, ella, con qualche ufficiale, specialmente con un maggiore, alto, biondo, robusto, un colosso.
— Signora mia — le diceva costui in inglese — io non so che farvi. Badate alla vostra vita, io non posso garantirvela. Non garantisco neppure la mia.
Ella non temeva per sè, temeva per la sua creaturina. La bimba aveva un cappellino rotondo, chiamato allora alla Garibaldi, con un pompon tricolore: e la bimba voleva portarlo sempre, quel pericoloso cappellino. Quando i soldati la vedevano passare, tutta fiera di quel pomo di seta tricolore, era come una rivolta:
— Tagliamo loro la testa, a questa razza di briganti, tagliamo la testa di questa creatura, così imparerà a portare il pomo tricolore!
La madre tirava un poco a sè la bambina e fingeva di sorridere, e quando era sola, in camera sua, soltanto allora, abbracciava la bimba, con una stretta frenetica. Don Ottaviano urlava:
— Ci farete ammazzare tutti, con quel vostro pomo tricolore!
Ma la bimba non voleva lasciarlo, gridava, gridava, glielo aveva dato il suo papà, quel cappellino col pomo tricolore. Infine, i viveri cominciando a mancare, i soldati diventarono più rabbiosi e chiesero quattrini: il maggiore portò la imbasciata a don Ottaviano. Costui un giorno dette ai soldati trenta ducati messi da parte per le feste di Natale: ma di notte, aiutato dalla cognata donna Cariclea, dalla zia Rachele e dalla serva Ottavia, seppellì in un angolo dell’orto, il tesoro della Madonna, collane di oro, anelli, orecchini, ex-voto di argento, pissidi, calici, candelabri, altri arredi sacri. L’altare famigliare, che era nel grande salone di famiglia, dedicato alla Vergine, restò spoglio di ogni ornamento. Il seppellimento fu fatto misteriosamente:
— Benedetto, benedetto! — diceva don Ottaviano, baciando piamente ogni arnese sacro, prima di sotterrarlo.
E singhiozzava, il povero prete.
Poi dette ai soldati altri venti ducati, che erano una dote da estrarsi, il primo di novembre, per far maritare una zitella del paese: ma non bastarono. Donna Cariclea dette loro venti marenghi che il marito le aveva lasciati; ma non bastarono. Zia Rachele dette a questi svizzeri furiosi quindici ducati di economie fatte, in molti anni, a grano a grano; ma non bastarono. Ottavia, la serva, aveva diciotto carlini: li dette. In breve, nel palazzo non ci fu più un soldo, nè un pizzico di farina, nè una goccia di vino. Gli ufficiali svizzeri si vergognavano: specialmente il maggiore, che era una persona assai gentile, chinava il capo, offeso nel suo orgoglio di militare. Ora i soldati volevano il tesoro della Madonna: lo volevano giuocare a carte.
— La Madonna non ha tesoro — diceva don Ottaviano: — ditelo voi, donna Cariclea.
— La Madonna non ha tesoro — ripeteva la coraggiosa signora.
Il maggiore andava e veniva, parlamentando fra i soldati e la famiglia.
— Se non ci danno il tesoro ammazziamo la bimba — mandavano a dire i soldati.
— Raccomandiamoci alla Vergine, cognata mia — mormorava il prete.
Così, prevedendo imminente la morte, tutta la famiglia si raccolse nello stanzone, innanzi all’altare denudato, e si mise a pregare. Don Ottaviano aveva vestito i paramenti sacri e stava inginocchiato sui gradini dell’altare. Era una settimana, dieci giorni di accampamento: nessuna notizia, nessun soccorso. Ora l’umore degli svizzeri era cambiato. Chiedevano un banchetto: volevano che nel cortile s’imbandisse una grande mensa, volevano i gnocchi, se no, mettevano fuoco alla casa. Il parroco giurava di non aver nulla, nulla da dare, neppure un tozzo di pane, il maggiore con le lacrime agli occhi lo scongiurava, che cercasse, che mandasse, per pietà della vita di tutte quelle donne, vecchie e giovani. Furono spediti corrieri a Carinoia, a Casale, a Cascano, per trovar farina. Ma intanto i soldati andarono nella legnaia, ne cavaron fuori tutte le fascine e le disposero attorno alle mura del palazzo. I corrieri che erano andati per farina tardarono assai: forse erano stati arrestati, forse erano morti. Un mormorio crescente saliva dal grande cortile. Nel salone le donne dicevano le litanie, salmodiando. L’ora passava lenta.
— Se fra dieci minuti non arriva il corriere con la farina, i soldati danno fuoco — venne a dire il maggiore.
— Non potete fare più nulla per noi? — chiese donna Cariclea.
— Più nulla, signora.
— Portar via questa piccolina? Io non mi dolgo di morire; vorrei salvare la bimba.
— Mi ucciderebbero con lei, signora.
— Che Dio ci assista, dunque — mormorò donna Cariclea.
E Dio li assistette. Un corriere da Cascano ritornò. Portava farina: poca, insufficiente, ma ne portava. Così le serve lasciarono di pregare e scesero in cucina, a fare i gnocchi, per i soldati.
Ma i soldati non vollero togliere le fascine: e la morte parve solo ritardata di qualche ora; si capiva che dopo il banchetto i soldati sarebbero diventati più feroci; non avrebbero conosciuto più ragione. Essi, nel cortile, tumultuavano; le povere serve, in cucina, manipolavano la pasta, instupidite; su, nello stanzone, il parroco aveva confessato e dato l’assoluzione a tutti i suoi parenti. La piccolina di donna Cariclea spalancava gli occhi, spaventata: ma non piangeva.
A un tratto il pesante martello del portone risuonò, tre volte sonoramente. Un silenzio profondo. Ma nessuno aprì. Tre altri colpi: e il battito del piede ferrato di un cavallo risuonò innanzi al portone.
— Chi va là? — chiese la sentinella, senz’aprire.
— Viva Francesco II! — gridò una voce affannosa.
— Viva, viva! — urlarono i soldati.
Era una staffetta: un soldato pallido e grondante sudore. Chiese del colonnello, del maggiore, di un capo; non aveva che due parole da dirgli. Il maggiore alto e biondo, il colosso affettuoso e fiero accorse; la staffetta si rizzò, gli parlò all’orecchio. Il maggiore restò imperterrito, assentì col capo; la staffetta ripartì, precipitosamente. Il maggiore salì sul terrazzino interno che dava sul cortile, fece suonare la tromba, due volte.
— Soldati — disse con voce tonante — abbiamo innanzi a noi Garibaldi, alle spalle arriva Vittorio Emanuele. Facciamo il nostro dovere. Viva Francesco II!
— Viva! — disse qualche voce.
E lentamente si misero in tenuta di partire. Andavano fiacchi, lenti, molli, attaccandosi la giberna, visitando i fucili: e il maggior loro dolore, per quei mercenari brutali, era di non poter banchettare, di non poter mangiare i gnocchi che le povere serve facevano in cucina. Gli ufficiali andavano, venivano, gridavano; ma inutilmente.
— Consolatevi, signora — disse il maggiore a donna Cariclea, entrando nel salone — ora vengono i Garibaldini.
Ella non osò consolarsi. Stringeva la piccolina sul petto e non parlava. Il parroco non levava la testa.
— Addio, Signora, non ci vedremo più — disse il maggiore. — Noi andiamo alla morte.
E non tremava la sua voce. Uscì, si pose alla testa dei soldati, marziale, bellissimo a cavallo, camminando serenamente alla battaglia; dietro di lui i soldati svizzeri andavano, come pecore, stretti stretti, taciturni, torvi. Nessuno osò levare la voce, nel palazzo deserto, devastato; per un’ora tutti tacquero, innanzi all’altare, subendo ancora l’incubo di quell’assedio.
— Ora vengono i Garibaldini — disse, a un tratto, la bambina.
E vennero. Portavano la camicia rossa, ma erano coperti di polvere, con le scarpe rotte, stanchi, sfiniti; volevano bere, volevano mangiare, non ne potevano più.
— Che daremo loro? — diceva don Ottaviano, disperandosi.
I Garibaldini non credevano che non ci fosse nulla. Erano una quarantina, estenuati; avevano trovato la devastazione dappertutto. Dappertutto i Borbonici avevano mangiato tutto, bevuto tutto, non vi era più nulla; come potevano dunque battersi? Un ufficiale, buonissimo, parlamentava con donna Cariclea e col parroco; era inutile, non vi era nulla, nulla. Ma un clamore venne dal cortile; i Garibaldini avevano scoperto la cucina e il caldaione dei gnocchi.
— Ah, Borbonici, canaglia! Avevate da mangiare e ce lo negavate! Borbonici della malora, che vi porti via il diavolo!
Ma fra quelle voci irritate, furiose, una vocina sorse:
— Viva Garibaldi!
La piccolina, in mezzo ai Garibaldini, agitava il suo cappelluccio col pomo di seta tricolore. Mentre la baciavano, levandola su in trionfo, ella strillava sempre. La madre piangeva.
⁂
Il cannoneggiamento cominciò alle tre del pomeriggio. Ventaroli è sulla collina, l’eco dei cannoni vi si ripercuoteva fortemente. Donna Cariclea era salita sopra una torricella, donde si vedeva tutta la valle; ma nulla si scorgeva. Dove si battevano? Con che esito? Era impossibile saper nulla. I quaranta Garibaldini erano andati via allegramente, dopo aver pranzato, coi loro scarponi rotti, coi loro vecchi fucili; e tutte le case di Ventaroli si erano chiuse, i portoni erano sbarrati. Quando cominciò il cannone, Pasqualina Cresce, che aveva paura dei tuoni, aveva cacciato il capo sotto i cuscini; il vecchio Nicola Borrelli, che aveva fatto il soldato, tendeva l’orecchio per sentire donde venisse; e la sorella dell’emigrato, Rosina, una fiera donna, era venuta nello stanzone e aveva accese due altre candele alla Vergine, per conto suo, perchè vincessero i Garibaldini. Donna Cariclea fremeva: invano aguzzava gli occhi, sulla torricella, ma non un’anima passava nella valle, non un carro, non un contadino; un deserto, un paese morto. Il cannone si arrestava, talvolta, per cinque minuti, ma dopo riprendeva con più vigore. Stette tre ore lassù, sino all’imbrunire. E sempre il cannone: talvolta allegro, talvolta lungo e lugubre. Poi tacque. Era notte. Nessuna notizia. Era perduta o salvata la patria?
Ma don Ottaviano, le vecchie zie, le giovani spose, le serve erano stanche di quella tremenda giornata; e, malgrado il terrore dell’indomani, malgrado la suprema incertezza, che era anche un supremo pericolo, andarono a dormire. Donna Cariclea si ritirò nella sua stanzuccia, che era proprio sopra l’arco del portone. Aveva appena appena congiunte le mani della piccolina per la preghiera della sera, quando, nel silenzio profondo del villaggio, si udì un galoppo di cavallo; veniva verso la casa. E subito dopo un fievole colpo di martello risuonò. Donna Cariclea trasalì. Che doveva fare? Si affacciò senza far rumore alla finestra: nell’ombra si vedeva un cavallo e un cavaliere, ma non si distingueva altro. Erano immobili, aspettavano. Ma passò qualche minuto; il cavaliere non picchiò di nuovo, aspettando, pazientemente.
— Chi sarà mai? — pensava donna Cariclea, tutta trepidante.
E richiuse la finestra, senza far rumore. Ma quel cavaliere, là innanzi al portone, nella notte, le dava tormento. Riaprì, domandò sottovoce:
— Chi è?
— Sono io — disse una nota voce.
— Voi, maggiore?
— Aprite, signora, per carità!
Ella prese un lume, attraversò due o tre stanze, scese per le scale, andò a tirare i grossi catenacci. Silenziosamente il maggiore era disceso da cavallo e se lo trasse dietro, nel cortile; lo legò a un anello di ferro. La signora andava innanzi e il maggiore dietro; quando furono nella stanzetta, il maggiore le fece cenno di chiudere la porta, a chiave. La bimba, già in letto, guardava tutto questo con un par d’occhioni spaventati.
— Signora — disse il maggiore — io sono nelle vostre mani.
Ella lo guardò, sgomenta. L’ufficiale svizzero era in uniforme, tutto gallonato, tutto scintillante di oro: ma teneva il capo abbassato sul petto.
— Che avete fatto? — chiese ella duramente.
— Sono scappato, signora. Fuggo da tre ore; due ore siamo stati nascosti in una macchia, il mio cavallo e io.
— Non avete preso parte alla battaglia?
— No, signora, vi dico che sono scappato.
— E perchè? — chiese ella a quel colosso.
— Perchè avevo paura — disse lui, semplicemente.
— Oh! — fece soltanto lei, celandosi il volto per ribrezzo.
— Avete ragione — disse lui, umilmente. — Ma la paura non si vince: sono fuggito.
— Non vi vergognate, non vi vergognate? — chiese ella, tremando di emozione.
Egli non rispose. Si vergognava, forse. Stava buttato sulla sedia, grande corpo accasciato dalla viltà.
— E i vostri soldati?
— Chissà! — disse il maggiore, levando le spalle.
— Chi ha vinto, dunque?
— Non lo so. Avranno vinto gli Italiani.
— E siete fuggito?
— Già. Vi ripeto, avevo paura. Che m’importa della battaglia? Voi dovete salvarmi signora.
— Io?
— Sì. Dovete farmi fuggire. Voglio ritornare a Napoli, in sicurezza. Ho famiglia io: ho figli io: che me ne importa di Francesco II? Salvatemi, signora, ve ne scongiuro.
— E perchè dovrei farlo?
— Perchè siete donna, perchè siete buona, perchè anche voi avete una figlia... e capite...
— Siete un nemico, voi.
— V’ingannate, sono un disertore.
— Ebbene?
— Significa che io temo egualmente i Borbonici, come i Garibaldini. Se mi trovano i vostri, sono un nemico e mi fucilano; se mi trovano i Borbonici, sono un disertore e mi fucilano. Ecco perchè vi chieggo di salvarmi.
— Se rientrate a Napoli vi fucileranno.
— Garibaldi è buono — disse umilmente il maggiore svizzero.
— È una vergogna — ripetette lei duramente.
— Lo so; ma che posso farci? Salvatemi voi.
— Stamane avreste lasciato morire la mia bambina.
— Che potevo fare?
— Eppure il re contava su voialtri! Che uomini siete dunque?
— O signora mia, per carità, non ne parliamo; se avete viscere di madre, trovatemi un mezzo per fuggire.
— Io non ne ho.
— Lasciatemi stare qua, in questa stanza.
— Se vi ci trovano, siamo perduti tutti.
— È vero — disse lui, dolorosamente.
La bambina aveva ascoltato tutto il discorso, guardando ora sua madre, ora il maggiore. Adesso, ambedue tacevano. Egli era immerso nel più profondo avvilimento; ella era combattuta da tanti sentimenti diversi.
— Ho anch’io un bimbo di questa età — mormorò il maggiore. — Non lo vedrò più, forse.
— Aspettatemi qui — disse donna Cariclea, decidendosi.
E uscì. Il maggiore si era inginocchiato vicino al letto e aveva baciata la piccolina. Donna Cariclea tardava. Alla fine, muta, lieve come un’ombra, ritornò. Portava un involto di panni:
— Smorzerò il lume — disse, con voce breve, superando ogni ritrosia di donna — toglietevi l’uniforme e mettete questi abiti.
Così fece. Dopo pochi momenti ella riaccese il lume; il maggiore era vestito da contadino e l’uniforme giaceva per terra. Egli se ne stava tutto umile, tutto contrito.
— Bisogna nascondere quest’uniforme e questa spada — disse lui, — trovandosi, sareste perduta.
— È vero — disse lei. — Spezzate dunque la spada.
Senza esitare, egli tentò di spezzare la spada sul ginocchio. Ma la buona lama resisteva. Alla fine, con la tensione dei suoi muscoli robusti, la spezzò.
— Scucite i galloni dall’uniforme — ordinò donna Cariclea.
Pazientemente, il maggiore strappò i galloni del suo uniforme. Ella raccolse tutto.
— Andiamo a buttarli via.
Egli la seguì per le scale; essa lo guidava con un fioco cerino. Scesero nel cortile macchinalmente, ella buttò i frammenti della spada nel profondo pozzo, che era in mezzo al cortile. Il maggiore sospirò di sollievo. Poi passarono vicino alla conserva dell’olio; ella vi buttò l’uniforme disadorna di galloni. Alla fine, passando presso un mucchio di letame, ella vi buttò i galloni, rivoltandoli con una pala, per farli andare sotto.
— Dio mio, ti ringrazio! — esclamò il maggiore.
— E il cavallo? che facciamo del cavallo? Se lo trovano siamo perduti.
— È vero — mormorò lui — Bisogna farlo scomparire. Ora lo ammazzo.
— Con che?
— Non ho armi, è vero.
Andarono presso il cavallo. La buona bestia nitrì; il maggiore fremette di paura. Poi, sciolse le redini dall’anello, trasse il cavallo fuori del portone e rinchiuse il portone. Stettero a sentire, il maggiore e donna Cariclea. Per un pezzo il cavallo scalpitò sulla soglia, battè col capo contro il legno della porta; ma poi ne sentirono il galoppo furioso e pazzo per la campagna.
— Domani la campagna sarà piena di cavalli fuggenti — mormorò il disertore.
— Andiamo su — fece lei.
Risalirono. La bimba era sempre sveglia. Donna Cariclea si chinò e baciò sulla guancia la sua figliuola. In atteggiamento confuso il maggiore aspettava.
— Sentite — disse donna Cariclea. — Io ho fatto svegliare Peppino, il boaro. È una creatura bestiale, ostinata e fedele. Farà tutto quello che gli ho detto. Ha messa una scala alla finestra del grande salone. Dà sull’orto. Voi scenderete per quella scala; siete forte, mi pare?
— Fortissimo.
— Bene; andrete a traverso i campi, ma senza affrettarvi, dovrete avere il passo dei contadini che vanno al mercato. Parlate poco con Peppino, i contadini non parlano. Avete i baffi di un signore e di un militare; ecco le forbici, tagliateveli.
Egli eseguì senz’esitare.
— Bene. Andrete a passare il Volturno, molto al disotto di Capua; là troverete una scafa, passerete il fiume e vi recherete a Napoli. Peppino vi lascierà, tornerà indietro, non dirà mai una parola con nessuno. Noi, probabilmente, non c’incontreremo più. Tanto meglio. Ma se ci dovessimo mai incontrare, badate bene, non mi ringraziate, non mi tendete la mano, non mi salutate, non mostrate di conoscermi. Se lo faceste, vi darei del disertore sulla faccia. Addio, dunque, signore.
— Addio, signora.
E fece per accostarsi al letto, donde la bimba lo guardava, e voleva baciarla.
— No — fece la madre opponendosi.
Egli uscì. Donna Cariclea lo sentì scambiare una parola con Peppino che l’aspettava pazientemente, seduto nell’ombra dello stanzone; udì lo scricchiolìo della scala sotto quel corpo pesante; udì i due passi quasi allontanarsi. Allora si accostò al letto della sua piccolina, si curvò su lei:
— Pensa che questo sia un sogno, Caterina: dimentica, dimentica tutto, piccolina mia.
. . . . . . .
Ma Caterina non ha potuto dimenticare.