Don Chisciotte della Mancia Vol. 2/Capitolo XL
Questo testo è completo. |
Traduzione dallo spagnolo di Bartolommeo Gamba (1818)
◄ | Capitolo XXXIX | Capitolo XLI | ► |
CAPITOLO XL.
Si dicono cose appartenenti a quest’avventura ed a sì memorabile istoria.
Prosegue dunque la istoria, dicendo che Sancio veduto lo svenimento della Dolorida, sclamò: — Giuro da galantuomo e per le ombre di tutti i Panza miei parenti dei secoli passali che un’istoria come questa non si è mai più udita nè vista, nè mai l’avrebbe immaginata neppure il mio padrone. Mille diavoli ti portino, maledetto gigante incantatore Malambruno! Non sapevi tu fantasticare qualche altro gastigo per queste disgraziate da quello in fuori di far loro venire la barba? E che? non sarebbe stato meglio tagliare loro il naso tutto per il lungo quando anche avessero dovuto poi sempre uscire le parole da quella parte, piuttosto che appiccare loro la barba? E tanto più, che sono sì meschine ch’io giuocherei che non hanno tanto da pagare chi le rada. — Pur troppo è vero, rispose una delle dodici, che noi non abbiamo capitale che basti da farci pelare, e taluna di noi cominciò a fare uso per rimedio economico di certi piastrelli e cerotti attaccaticci, i quali, applicati al viso e tirati, via subito ci fanno restare rase e lisce come il fondo di un mortaio di pietra. Per altro in Candaia vi sono donne le quali si recano di casa in casa a levare peli, a ripulire ciglia e a fare altre misture da donne; ma noi altre matrone della nostra signora non le abbiamo voluto ammettere, essendochè la maggior parte di esse è gente di non so qual brutta professione da non dirsi: e se nel valore del signor don Chisciotte non troveremo rimedio, ci porteranno con la barba alla sepoltura„.
— Io vorrei pelata la mia, disse don Chisciotte, in terra di Mori se non rimediassi alla vostra„. La Trifaldi, ch’era intanto tornata in sè dal suo svenimento, disse: — Il tintillo di questa promessa, cavaliere valoroso, mi perviene all’udito anche in mezzo al mio perdimento di sensi, ed è bastante per fermi riavere e ricuperare la intelligenza, e però di nuovo vi supplico, errante inclito signore indomabile, che la promessa vostra ponghiate ad effetto. — Nulla ommetterò, rispose don Chisciotte, per riuscirvi; ma ditemi, signora, ciò che io debba fare, poichè ho l’animo apparecchiatissimo per servirvi. — Fatto sta, rispose la Dolorida, che di qua sino al regno di Candaia, viaggiando per terra, vi è la distanza di cinquemila leghe, due più due meno, ma se si va per l’aria o per linea retta, ve ne sono tremila e dugentoventisette. E dovete anche sapere che Malambruno mi ha detto che quando la sorte mi facesse abbattere nel cavaliere nostro liberatore, egli invierebbe a lui una cavalcatura molto migliore e meno maliziosa delle consuete, cioè il medesimo cavallo di legno sul quale il valoroso Pierre se ne portò rubata la bella Magalona: cavallo ch’è retto da un bischero che porta in fronte, e che gli serve di freno; e vola per aria con tanta leggerezza che sembra portato per opera di demonii. Questo cavallo, secondo quello che si trova anticamente scritto, fu opera del savio Merlino, che lo prestò a Pierre suo amico, e con quello fece grandi viaggi, e rubò, come si è detto, la bella Magalona, menandola in groppa per aria, e lasciando trasecolati quanti fino da costaggiù lo miravano; nè lo prestava se non a chi più gli tornava a genio o gliene pagava gran prezzo. Dal valoroso Pierre in poi non si sa finora che alcun altro siavi salito sopra, ma è noto che io ha cavato fuori Malambruno con le arti sue, ed hallo in suo potere, e di lui si vale nei viaggi che fa per varie parti del mondo, trovandosi con tal mezzo oggi qua, dimani in Francia, e un altro giorno nel Potosì. Quello poi che fa accrescere lo stupore si è che questo tal cavallo nè mangia, nè dorme, nè consuma ferri, ma senz’aver ali porta per aria chi vi sta sopra, di modo che il cavaliere può tenere in mano un bicchiere pieno di acqua senza timore di versarne goccia, tanto è il suo cammino pari e riposato! e lo sa bene la bella Magalona che provava sì gran diletto nel cavalcarlo„. A questo discorso soggiunse Sancio: — Se parliamo di camminare pari e riposato non v’è chi superi il mio leardo, tuttochè non vada per aria; e in quanto all’andare per terra posso metterlo al paragone con quanti portanti si trovano al mondo„.
Risero tutti; e la Dolorida proseguì: — Questo siffatto cavallo (se così sia che Malambruno voglia dar fine alla nostra sventura) ci si presenterà dinanzi mezz’ora dopochè sarà venuta la notte, perchè il Savio mi significò che il segno ch’io avrei da lui per farmi conoscer di avere trovato il cavaliere che cerca, sarebbe inviarmi il cavallo su cui potessi a mia voglia andarmene con prestezza. — E quante persone, disse Sancio, possono stare su questo cavallo? — Due, rispose la Dolorida, una in sella, l’altra in groppa, e queste tali persone sono di ordinario cavaliere e scudiere, quando non vi si aggiunga qualche rubata donzella. — Vorrei sapere, signora Dolorida, disse Sancio, il nome di questo cavallo. — Il nome, rispose Dolorida, non è quello del cavallo di Bellorofonte, che si chiamava Pegaso, nè quello del grande Alessandro, detto Bucefalo, nè quello del furioso Orlando, nomato Brigliadoro, nè meno Baiardo, che fu di Rinaldo di Montalbano, nè Frontino, ch’era quello di Ruggiero, nè Boote, nè Pirotoo, come affermano che si chiamino quelli del sole, nè tampoco Orelia, come il cavallo con cui lo sventurato Rodrigo, ultimo re de’ Goti, entrò in quella battaglia in cui perdè il regno e la vita. — Io scommetterei, disse Sancio, che non essendogli stato dato alcuno di quei famosi nomi che avete detti, meriterebbe quello di Ronzinante, cavallo del mio padrone che in quanto alla sua figura supera tutti i cavalli del mondo. — Così è, rispose la barbata contessa: ma però gli calzerebbe molto a proposito, Clavilegno l’aligero, sì per essere di legno quell’ordigno che porta in fronte, come per la leggerezza con cui cammina, e in conclusione anche quanto al nome potrebbe gareggiare col famoso Ronzinante. — Il nome per verità non mi dispiace, replicò Sancio, ma con che freno o con che cavezza si regge? — Dissi già, replicò la Trifaldi, che si regge col mezzo del biscadero, perchè il cavaliere girandolo dall’una o dall’altra parte lo fa camminar a sua voglia, o per aria o radendo e quasi spazzando la terra, o per quel mezzo a cui ognuno si attiene in tutte le cose ben ordinate. — Vorrei vederlo, rispose Sancio; ma l’immaginarsi ch’io abbia a starvi sopra o in sella o in groppa, egli sarebbe proprio cercar pere nell’olmo: io che posso appena reggermi sul mio leardo e sopra una bardella morbida come la seta, come mai potrei tenermi saldo su di una groppa di legno senza cuscinetto o guanciale? In somma sarebbe migliore spediente di non istare a impazzarsi a levare la barba a nessuno; e ognuno se la rada come più gli mette conto, chè io fo pensiero di non accompagnare punto nè poco il mio padrone in questo sì lungo viaggio: e tanto più che io non credo già di dover essere necessario allo sterminio di queste barbe come lo sono per disincantare la mia signora Dulcinea. — Sì che lo siete, amico mio, rispose la Trifaldi, e a segno tale da persuadermi che nulla si possa fare senza la vostra presenza. — Oh qui ne voglio un ruotolo, disse Sancio: e che hanno di comune gli scudieri con le venture dei loro padroni? e peggio; che la fama delle imprese condotte a termine fortunato torna sempre a loro profitto, e il travaglio sempre a carico nostro. Pazienza se almeno gli scrittori dicessero: “Il tale cavaliere compì la tale e tale ventura, ma con l’assistenza del tale suo scudiere, senza il quale sarebbe stato impossibile condurla a fine„. Ma scrivono secco secco: Don Paralipomenone dalle tre Stelle ha dato fine alla ventura delle sei fantasime, senzachè mai lo scudiere, il quale si trovò a tutto presente, sia menzionato come se non fosse stato mai al mondo! Torno a dirvi, signori miei cari, che il mio padrone può andarsene solo, e buon prò gli faccia; ma io me ne resterò qua in compagnia della mia signora duchessa; e potrebbe darsi ch’egli trovasse al suo ritorno migliorata la causa della signora Dulcinea, in terzo e quinto perchè fo conto, nel tempo in cui starò ozioso e disoccupato, di darmi tal carica di frustate che pelo non mi salvi. — Oh no, Sancio buono, disse il duca, non potrete dispensarvi dall’accompagnare il vostro signore, giacchè sarete pregato a farlo da tutte le buone persone, e un vostro inutile timore non ha da produrre l’effetto che restino sì folti di pelo i visi di queste dame, chè certo saria una cattiva cosa. — Oh qui ne voglio un altro ruotolo, replicò Sancio: come se questa carità si facesse per qualche donzella ritirata o per qualche fanciulletta della dottrina! In questi casi l’uomo potrebbe avventurarsi ad ogni fatica, ma ch’io la sopporti per levare la barba a matrone? mi colga il malanno se ci penso un’acca, se pure avessero la barba tutte quante dalla più grande sino alla più piccola, dalla più schizzinosa sino alla più raffazzonata. — Non vi vanno a sangue le matrone, amico Sancio, disse la duchessa, ed io vi veggo troppo attaccato alla opinione dello speziale di Toledo: ma in verità che avete torto, poichè in casa mia vi sono matrone che possono servire di modello; e donna Rodrighez, ch’è qua con noi, non mi lascerà dire altrimenti. — Dica pure vostra eccellenza, soggiunse Rodrighez, chè Dio sa la verità di ogni cosa: ma o buone o triste, o barbate o senza barbe che siamo, noi altre matrone siamo escite dal ventre materno come ogni altra donna; e se il Signore ci lasciò in vita, egli sa bene il perchè, ed alla sua misericordia io mi attengo e non alla barba di chicchessia. — Orsù, signora Rodrighez, disse don Chisciotte, e voi, signora Trifaldi e compagnia, io spero che il cielo mirerà con occhio di clemenza le vostre sventure; che Sancio eseguirà quanto io gli comanderò qualora venga Clavilegno, ed io mi affronterò con Malambruno: e so che non si troverebbe rasoio che con sì grande facilità radesse le signorie vostre, come la mia spada raderebbe dalle spalle la testa di quel gigante; chè Dio soffre i malvagi, non però sempre. — Ah, sclamò allora Dolorida, le stelle tutte delle celesti regioni guardino con occhio benigno la grandezza vostra, valoroso cavaliere, ed infondano nel vostro animo ogni prosperità e gagliardia per essere scudo e difesa del vituperato e afflitto genere matronesco, oggetto di abbominazione agli speziali, di mormorazione agli scudieri e di adulazione ai paggi; che male si abbia la trista, la quale nel fiore dell’età sua non si è fatta prima monaca che matrona. Ah sfortunate noi povere matrone, le quali ancorchè venissimo per linea retta di maschio in maschio dallo stesso Ettore troiano, non pertanto ci sarebbe dato del voi dalle nostre signore, come s’elle credessero che questo voi le facesse diventar regine! Oh gigante Malambruno, che quantunque incantatore sei veracissimo nelle tue promesse, mandaci ormai il senza pari Clavilegno, acciocchè abbia fine la nostra sventura; chè se viene il caldo, e sussistono tuttavia le nostre barbe, noi siamo perdute per sempre. Con sì gagliardo impeto proferì la Trifaldi queste parole che trasse le lagrime dagli occhi ai circostanti, ed intenerì Sancio pure, il quale propose in suo cuore di accompagnare il suo padrone fino alle ultime parti dell’orbe, se questo si rendesse indispensabile per levare via la lana da quei sembianti sì venerabili.