<dc:title> Discorso sul testo della Commedia di Dante </dc:title><dc:creator opt:role="aut">Ugo Foscolo</dc:creator><dc:date>1826</dc:date><dc:subject></dc:subject><dc:rights>CC BY-SA 3.0</dc:rights><dc:rights>GFDL</dc:rights><dc:relation>Indice:Ultime lettere di Jacopo Ortis.djvu</dc:relation><dc:identifier>//it.wikisource.org/w/index.php?title=Discorso_sul_testo_della_Commedia_di_Dante/III&oldid=-</dc:identifier><dc:revisiondatestamp>20141125183958</dc:revisiondatestamp>//it.wikisource.org/w/index.php?title=Discorso_sul_testo_della_Commedia_di_Dante/III&oldid=-20141125183958
Discorso sul testo della Commedia di Dante - III Ugo FoscoloUltime lettere di Jacopo Ortis.djvu
[p. 137modifica]III. L’Italia, se tal rara volta non vede il Genio far vezzi di scimia, ringrazi la divinità della natura, la quale n’è prodiga più che altrove di tanto, che nè inquisizione Domenicana, nè malìa di educazione Gesuitica, nè onnipotenza di codardia servile riescono sempre ad imbastardirlo. Ma que’ tanti ne’ quali le facoltà della mente, quantunque nobili, non sono temperate sì prepotenti che reggano ad ogni qualità di tirannide, fanno oggi come i loro antenati incominciavano non molto dopo l’età di Dante, e peggioravano a’ tempi della dominazione di Carlo V. Fiorivano senza fiutto; si confondevano co’ mediocri; scrivevano gli uni per gli altri e non mai per l’Italia1; e or gli uni or gli altri s’assottigliavano intorno a’ libri de’ morti in guisa da recarli a noja a’ viventi; e senza pur eseguire opere d’arte, imponevano ch’altri le ricopiasse invariabilmente simili in tutto alle antiche, e ne agguagliasse la perfezione. Taluni or vogliono averne procreate delle nuovissime, che non vi si raffigurino le Italiane; e gli uni e gli altri insegnano il come. Non pare che mai s’avveggano, o che s’attentino il sincerarsene, che il sapere efficacissimo sì di perfezionare, e sì di far nuovi lavori, non è mai conosciuto se non dagli uomini che nacquero atti e vivono liberi ad intraprenderli. Odo come la [p. 138modifica]superstizione alle vecchie dottrine letterarie, e la affettazione di forestiere, l’una e l’altre aggravate dalla pubblica servitù — che oggi è pessima — hanno prolungato certa guerra per la quale, nè più nè meno che nelle virili di sangue, all’Italia non ne rimarranno che i danni. Diresti che s’argomentino — alcuni d’imprigionare la mente de’ loro concittadini nel cranio degli arcavoli — e alcuni d’esiliarla lontano dalle consuetudini e dalle illusioni, e dall’aria propria d’Italia, e dalle reminiscenze delle origini Greche e Romane della loro patria, e da’ fantasmi e da’ nomi di quella poesia, senza la quale Canova non avrebbe mai potuto ideare le Grazie. Forse in Roma per la greca lingua che v’abbellì le belle arti ne resta la gratitudine; e so che ove alcuni nelle altre città tuttavia la professino, sono non foss’altro ammirati da chi non lo sa; ma testi e commenti vi arrivano oggimai da più tempo dalla Germania, dove la dottrina somma e la industria più che umana sono di rado ajutate dalla velocità dell’ingegno. Credo che della scuola di Padova, ove la lingua latina era custodita sino a’ miei giorni, sopravvivano molti; ma la diresti fedecommesso lasciato a promovere l’educazione de’ preti. Di parecchi frammenti illustrati d’antichi fra questi ultimi quindici anni, alcuni pochissimi non sono disutili, se non che dalle magnificenze che se ne dissero, escono indizj di povertà alla quale ogni piccolo nuovo acquisto pare tesoro. Spesso la oziosa curiosità letteraria loda perchè non guarda; poscia ne ride: e davvero que’ frammenti furono dissotterrati con solennità di panegirici; quasi cadaveri sollevati alla venerazione popolare sopra gli altari.