Pagina:Ultime lettere di Jacopo Ortis.djvu/139


discorso sul testo del poema di dante. 137

naturale e di diritti imperscrittibili, quando anzi per essi tutto diritto ed obbligo erano decretati dal fatto e dalla vittoria. Nè quegli scrittori guardavano il mondo, nè vedevano uomini fuori delle loro città; onde divezzano dall’osservare le somiglianze e dissomiglianze fra le nazioni, e derivare un sistema politico dalle origini prime delle diverse società sulla terra. Tuttavia rappresentano individui fortissimi, nobili imprese, anime maschie; allettano la fantasia ad illusioni eroiche; concentrano il cuore alla patria e all’ardore di fama guerriera; però movono a fatti più che a speculazioni a difendere la libertà. Certo, qui dove scrivo, alcuni che furono esercitati sino dalla prima gioventù a pesare sillabe e accenti su’ classici, oggi primeggiano autori popolari, e poeti nuovi, ed eloquenti fra gli oratori. Se non che molta, se forse non tutta, originalità viene a genio dalla attitudine d’arricchirsi di tutto da tutti, a fare suo proprio l’altrui, e rimodellare e immedesimare ogni cosa, sia straniera o antichissima; tanto da trasformarle che assumano le sembianze e le qualità confacenti a nuova età e altro popolo. E vedo la letteratura in Inghilterra quasi fiume ampliatosi rapidamente per lontanissimo corso da mille ignote sorgenti confluenti da più secoli sino ad oggi da tutte le parti, a innaffiare nuove campagne. La libertà della patria aggiunge anima all’ardire, e generosità alle passioni, e vigore alla mente onde il genio, non sì tosto si libera dalla tutela delle scuole, va quanto può e come vuole.

III. L’Italia, se tal rara volta non vede il Genio far vezzi di scimia, ringrazi la divinità della natura, la quale n’è prodiga più che altrove di tanto, che nè inquisizione Domenicana, nè malìa di educazione Gesuitica, nè onnipotenza di codardia servile riescono sempre ad imbastardirlo. Ma que’ tanti ne’ quali le facoltà della mente, quantunque nobili, non sono temperate sì prepotenti che reggano ad ogni qualità di tirannide, fanno oggi come i loro antenati incominciavano non molto dopo l’età di Dante, e peggioravano a’ tempi della dominazione di Carlo V. Fiorivano senza fiutto; si confondevano co’ mediocri; scrivevano gli uni per gli altri e non mai per l’Italia1; e or gli uni or gli altri s’assottigliavano intorno a’ libri de’ morti in guisa da recarli a noja a’ viventi; e senza pur eseguire opere d’arte, imponevano ch’altri le ricopiasse invariabilmente simili in tutto alle antiche, e ne agguagliasse la perfezione. Taluni or vogliono averne procreate delle nuovissime, che non vi si raffigurino le Italiane; e gli uni e gli altri insegnano il come. Non pare che mai s’avveggano, o che s’attentino il sincerarsene, che il sapere efficacissimo sì di perfezionare, e sì di far nuovi lavori, non è mai conosciuto se non dagli uomini che nacquero atti e vivono liberi ad intraprenderli. Odo come la su-

  1. Vedi qui appresso, sez. cxxii-cxxv.