Discorso in proposito d'una orazione greca di Giorgio Gemisto Pletone
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III
DISCORSO
IN PROPOSITO DI UNA ORAZIONE GRECA
DI GIORGIO GEMISTO PLETONE
e volgarizzamento della medesima
DISCORSO
in proposito di una orazione greca
di giorgio gemisto pletone
Tace la fama al presente di Giorgio Gemisto Pletone costantinopolitano; non per altra causa se non che la celebritá degli uomini, siccome, si può dire, ogni cosa nostra, dipende piú da fortuna che da ragione. E niuno può assicurarsi, non solo di acquistarla per merito, quantunque grande, ma acquistata eziandio che debba durargli. Certo è che Gemisto fu de’ maggiori ingegni e de’ piú pellegrini del tempo suo, che fu il decimoquinto secolo. Visse onorato dalla patria; e poi trovatosi sopravvivere alla patria, ed al nome greco (o, come esso diceva, romano), fu accolto ed avuto caro in Italia, dove stette gran tempo e morì; ed ebbe una splendidissima riputazione in questa sua nuova patria, e medesimamente nelle altre province d’Europa, per quanto si stendeva in quei tempi lo studio delle lettere. Lascerò le altre particolaritá che di lui si possono vedere in molti scrittori: solo ricorderò che egli, esaminate le religioni de’ tempi suoi, riprovata la maomettana, che di quei giorni, piantata nel piú bel paese di Europa, pareva come trionfante e giá prossima ad ottenere il primo grado, non fu soddisfatto né anche della cristiana. E cento anni prima della Riforma (movendosi, non per animositá ed ira, come Lutero, ma per sue considerazioni filosofiche e per discorsi politici) disegnò, intraprese e procurò in alcuni modi, ancora sperò, e non molto avanti di morire predisse, lo stabilimento di nuove credenze e di nuove pratiche religiose, piú accomodate, secondo che egli pensava, ai tempi ed al bisogno delle nazioni.
Scrisse molti libri di storia, di filosofia pratica e speculativa, e di altre materie d’ogni genere: e tutti con tanta copia e gravitá di sentenze, con tal sanitá, con tal forza, con tal nobiltá di stile, tanta puritá, tanta finezza di lingua, che, leggendoli, presso che si direbbe non mancare altro a Gemisto ad essere uguale ai grandi scrittori greci, di quegli antichi, se non l’essere antico. E questo fu anco il parere dei dotti della sua nazione in quel secolo. Io noto che la letteratura greca, oltre che nella eccellenza degli originali non fu inferiore ad alcun’altra, nella felicitá delle imitazioni fu di lunghissimo intervallo superiore a tutte. Vedesi questa cosa giá ne’ piú antichi, voglio dir piú vicini di tempo agli autori imitati: in Dionigi d’Alicarnasso, in Diodoro, in Filone; vedesi negli scrittori del secolo degli Antonini, in Arriano massimamente e in Luciano: tutti, quanto alla lingua e allo stile, imitatori, che parvero poi degni d’imitazione essi medesimi; vedesi nell’autor del trattato della sublimitá; e in altri tali non pochi: lasciando i molti piú che sono perduti. Perocché la letteratura greca non vince solamente le altre nella bontá, come ho detto, delle imitazioni; ma nel numero altresí di esse, dico delle buone e delle classiche, soprastá di gran lunga. Finalmente, in sullo stesso spirare, ella ebbe in Gemisto uno che nell’esprimere la lingua e lo stile dei migliori antichi riuscí felice in guisa, che alcune volte superò, almeno per sentimento mio, qualsivoglia anco di quegli altri detti di sopra. Certo che nessuno mai né latino né italiano nostro fu tanto simile agli antichi della sua lingua, per molto ingegno che avesse, e per diligenza e studio che adoperasse, quanto fu Gemisto ai princípi della letteratura patria. Veramente è cosa mirabile questa nazione greca, che per ispazio dintorno a ventiquattro secoli, senza alcuno intervallo, fu nella civiltá e nelle lettere, il piú del tempo, sovrana e senza pari al mondo, non mai superata: conquistando, propagò l’una e l’altre nell’Asia e nell’Affrica; conquistata, le comunicò agli altri popoli dell’Europa. E in tredici secoli, le mantenne per lo piú fiorite, sempre quasi incorrotte; per gli altri undici, le conservò essa sola nel mondo barbaro, e dimentico di ogni buona dottrina. Fu spettacolo nuovo, nel tempo delle Crociate, alle nazioni europee: gente polita, letterata, abitatrice di cittá romorose, ampie, splendide per templi, per piazze, per palagi magnifici, per opere egregie d’arti di ogni maniera; a genti rozze, senza sentore di lettere, abitatrici di torri, di ville, di montagne; quasi salvatiche e inumane. All’ultimo, giá vicina a sottentrare ad un gioco barbaro, e perdere il nome, e, per dir cosí, la vita, parve che a modo di una fiamma, spegnendosi, gittasse una maggior luce: produsse ingegni nobilissimi, degni di molto migliori tempi; e caduta, fuggendo dalla sua rovina molti di essi a diverse parti, un’altra volta fu all’Europa, e però al mondo, maestra di civiltá e di lettere.
Leggendo io la orazione di cui soggiungo il volgarizzamento qui appresso, quasi che a fatica avrei potuto credere, se bene io lo sapeva, che ella fosse del decimoquinto secolo, e non piuttosto dell’etá di Platone e di Senofonte, se non fossero stati alcuni erroruzzi di lingua rari e di poco peso; i quali non sono proceduti giá in niun modo da negligenza, ma da inganno di memoria, o da presunzione falsa dello avere gli scrittori autorevoli usato quelle tali forme di favellare, nata per non averli ben dirittamente osservati o intesi. E di questa sorte non pochi errori e non piccoli si ritrovano anche in Plutarco, in Luciano e in altri di simile antichitá: per non dire dei meno antichi, eziandio lodati, che spesse volte ne hanno in quantitá grande. Questa orazione discorre principalmente della immortalitá dell’anima, con occasione di lodare l’imperatrice Elena o Irene, morta poco innanzi, stata figliuola di Costantino Dragasi duca di una parte della Macedonia, e moglie di Emanuel Paleologo imperatore d’Oriente; la quale in sull’estremo della sua vita, prendendo abito di monaca, cangiò il proprio nome in quello d’Ipomone, che a noi sonerebbe Pazienza. Fu questa scrittura di Gemisto menzionata da Leone Allacci e da altri eruditi; e trovasi scritta a penna in piú biblioteche d’Europa. A questi anni passati, in Venezia, due chiarissimi greci, il Mustoxidi e lo Sciná, la pubblicarono in istampa. Né insino a ora è comparsa, che io sappia, in alcun’altra lingua che la nativa. Io l’ho ridotta in italiano, parte dilettato dalla sua bellezza, e parte movendomi il desiderio di suscitar la memoria di quel raro ingegno, e di porgere ai presenti italiani un saggio del suo scrivere.
Qui non dée forse essere fuor di luogo il dire dei volgarizzamenti in universale alcune poche parole in proposito di quanto, col suo consueto splendore di locuzioni e di sentenze, ha detto in disfavore di essi il mio Giordani nella lettera al Monti, pubblicata dianzi nell’Antologia fiorentina. «Siccome il tradurre giova all’uom giovane, al vecchio non giova; cosí nella gioventú delle nazioni essere profittevole prendere scienza e stile da’ popoli che precedettero nel sapere; ma quando un popolo giá adulto ha compiuta la sua educazione, e giá nella sua letteratura trasse quel che dell’altrui poteva convenirgli e bastargli, dovere, a guisa di pittore giá istruito, affaticarsi a dipingere del proprio, non a copiare. Le versioni dal latino o dal greco piú note, che per addietro o ne’ tempi nostri si fecero, quasi tutte niuna lode aver meritato, come inutili.
Perciocché la materia di quegli antichi autori non è piú recondita, ma diffusa nella cognizione di molti. Rimane dunque, per meritar lode, che i traduttori raffigurino quell’eccellenti bellezze di stile che negli originali si ammirano. Il che essersi fatto, e appena in parte, da pochissimi; né da molti potersi, perché domanda felicitá d’ingegno e valore di arte raro. Pregare che di questo suo giudizio, come di troppo superbo, altri non si voglia adirare: poiché in fatti mostrarsi non essere di lui solo ma di molti. Ché ogni dí si veggon sorgere nuovi traduttori di opere giá piú volte tradotte; i quali certamente sperano far meglio di ciò che innanzi a loro fu fatto; e cosí palesano di credere non essersi fatto abbastanza bene». Questi sono i sentimenti del predetto scrittore: nei quali io non so concorrere; e dirò il perché: sapendo che tali ingegni e tali animi non si tengono offesi da chi dissente da essi, né da chi espone le ragioni del dissentire.
Dico però brevemente, che le cose considerate dal Giordani non mi pare che possano conchiudere altro se non che le traduzioni dei libri classici, cattive o mediocri, sono ingloriose a chi le scrive, inutili agli altri; traduzioni buone e perfette essere oltremodo diffícili a farle, rarissimo a ritrovarne. Queste conclusioni sono ottime, vere, certe. Il medesimo appunto si trova essere delle opere di poesia, delle opere di eloquenza, di cento altri generi di scritture. Diremo per questo universalmente che le opere di poesia, quelle di eloquenza, e tutte le altre tali, sieno ingloriose agli autori, e nel resto vane? Il buono e il perfetto è difficile e raro in ogni genere di cose: non si disprezzano per ciò i generi, ma coloro che in alcuni di essi ottengono il buono e il perfetto, si apprezzano e lodano: e tanto piú o meno, quanto l’ottenerlo è, in quel cotal genere, piú o meno raro e difficile. Certamente quelli (e non sono pochi questi tali per veritá) che mettendosi a tradurre un famoso autore latino o greco, si credono entrare in una via compendiosa e agiata da venire all’immortalitá, errano di gran lunga. Piú malagevole è per avventura il tradurre eccellentemente dallo altrui le cose eccellenti, che non è il farne del proprio. Né si speri alcuno di farsi immortale con traduzioni che non sieno eccellenti. E quegli che degli autori greci o latini esprimono solo i pensieri, e non le bellezze e le perfezioni dello stile, non si può pur dire che traducano. Queste cose giova ed è a proposito il dirle, e anche il ripeterle spesso: acciocché altri non presuma (come si fa in questo secolo tutto giorno) dovere con ingegno forse meno che comunale, con poca o nessuna arte e fatica, ottenere quella medesima gloria che spesso con somma arte, con fatiche grandissime non ottengono gl’ingegni sommi. Ma non si dée per queste cose riprovare il genere delle traduzioni: ben si stimeranno perciò tanto maggiormente, e si riputeranno degne di tanto piú onore e fama le traduzioni perfette.
Quanto alla utilitá, io non credo che, oltre alla parte dello stile, non possano le traduzioni essere utili anco per le materie. Qual materia piú divulgata e piú trita che le notizie dei fatti della Grecia e di Roma? Per questo non si leggeranno piú al mondo istorie di cose romane o greche? E leggendosi, chi può dubitare che assai piú diletto primieramente, e poi frutto di piú intima, di piú viva, di piú, per cosí dire, oculata contezza dei casi e degli uomini, non si abbia sempre a raccòrre dalla lettura delle storie composte da greci o da latini, che di quelle che delle medesime cose sono state o saranno fatte dai moderni? Cosí, niuno mai, per udire o per leggere altri che la descrivano, potrá fare in sua mente, non dico un vivo, ma né anche un vero concetto della eloquenza di Cicerone e di Demostene, né forse ancora dell’uno e dell’altro uomo, se egli non leggerá le loro orazioni; e dell’uno, eziandio le lettere. Cosí d’infinite altre cose: che in vero infinite se ne ritrovano di quelle che o non si potranno aver mai se non dagli stessi scrittori antichi, o sempre si avranno migliori e piú dilettevoli dalle fonti, che alcun altro luogo. Onde, potendosi in Italia intendere, non che leggere speditamente, il greco e il latino da tanto pochi, rispetto al numero di quelli che o si dilettano o per qualunque cagione usano di legger libri; perché negheremo noi che non le convenga anco per la cognizione delle materie, esser provveduta di buone traduzioni dal latino e dal greco: quando nella Germania, ove è tanto minore il bisogno, è tanto grande la copia dei volgarizzamenti, i quali, siccome essi meritano, cosí ancora hanno grandissima riputazione? E lo stato dell’Italia in questo particolare è comune alla Francia, e parimente all’Inghilterra oggidí, e in somma a tutto il mondo, salvo solamente la Germania e l’Olanda, e in alcuna proporzione la Svezia e la Danimarca.
Ma quando eziandio stessero cosí le cose, che ogni persona cólta e gentile, insino alle donne, leggessero latino e greco (cosa tanto vicina alla veritá, che ella ci riesce ridicola a immaginarla), tuttavia le traduzioni perfette avrebbero quel pregio che hanno le statue e le pitture eccellenti, che non servono però a nulla. Dico non servono a nulla, per favellare come sogliono i nostri filosofi. Anzi servono esse a dilettare lo spirito: effetto che io non ho mai saputo intendere come non sia utilitá. Quasi che l’uomo cercasse o potesse cercare in sua vita altro che il diletto. O quasi che il diletto gli desse tra mani cosí ad ogni ora. Ma tornando al proposito, io per me leggo con piacere uguale la Rettorica d’Aristotele nella propria scrittura greca, e nella nostrale del Caro; e non mi par gittare il mio tempo, letta che ho l’una, a leggere ancora l’altra. La qual traduzione del Caro non è però senza difetto; ma ella ha solamente quelli che dava di necessitá il tempo: nel quale di greco non sapevasi piú che tanto, e i testi degli antichi non si avevano cosí emendati come si hanno oggi.
Se non che egli è ben lungi che tale sia o mostri voler divenire lo stato nostro, da non potere i volgarizzamenti aver pregio se non nel predetto modo. E io poi sono di opinione che i libri degli antichi, latini o greci, non solo di altre materie, ma di filosofia, di morale, e di cosí fatti generi nei quali gli antichi ai moderni sono riputati valere come per nulla, se mediante buone traduzioni fossero piú divulgati, e piú nelle mani della comun gente che essi non sono ora, e non furono in alcun tempo, potrebbero giovare ai costumi, alle opinioni, alla civiltá dei popoli piú assai che non si crede; e in parte, e per alcuni rispetti, piú che i libri moderni. Ma questa sarebbe materia di un lungo ragionamento. Ora ascoltiamo Gemisto.ORAZIONE
in morte della imperatrice
elena paleologina
Non sará egli cosa convenevole e giusta il rendere onore di lodi alla madre dei nostri imperatori e duchi, passata novamente di questa vita; o sará ella questa un’impresa agevole e proporzionata a qual che si sia lodatore? Non troveremo però che questa donna, tra quelle che furono collocate in pari grado di fortuna, abbia molte pari; e non sono poche le virtú e gli ornamenti che di lei si possono ricordare. Diciamo, adunque ch’ella fu, di nazione, trace. La nazione dei traci è antica, e delle maggiori che sieno al mondo: io non dico solamente di quella di qua dal Danubio, le abitazioni della quale si distendono per insino dal mar Nero all’Italia; ma intendo parimente di quell’altra parte di lá dal Danubio, i quali favellano la medesima lingua che questi di qua, e tengono un tratto di paese che va infino all’oceano che è da quella banda, e infin presso a quel continente che per lo estremo del freddo è disabitato: ed anco questa parte è molta, e piú assai di quella di qua dal Danubio. Questa gente, per essere animosa e di non rozzo sentimento, non fu senza il suo pregio insino ab antico. Perocché colui che in Atene instituì quei misteri eleusini, il suggetto dei quali si era l’immortalitá dell’anima, fu Eumolpo trace; e da essi traci è fama che la Grecia apprendesse il culto delle Muse. Ora una gente usata di onorare le Muse, non può essere goffa né incólta; e cosí una che abbia riti e credenze attenenti alla immortalitá dello spirito umano, non può essere d’animo ignobile. Di questa cosí fatta nazione fu il padre della imperatrice passata poco dinanzi ad altra vita; signore di una provincia di non ispregevole condizione, presso al Vardari, fiume che ha un’acqua delle ottime tra tutte le acque correnti, e delle sanissime da bere; uomo poi di fortezza e di giustizia grande, e di perfetta fede verso gli amici. Nata di sì fatto sangue, la madre dei nostri imperatori e duchi fu sposata al padre di quelli, uomo superiore assai, e per dignitá e per fortuna, ai parenti di essa, principe, verso di sé, ottimo; e disceso di non pochi príncipi somiglianti; all’ultimo, imperatore di questa nostra gente romana; della cui antica felicitá, e della virtú antica, soverchio sarebbe il favellare, siccome di cose note a una gran parte delle persone; se non che non dovrá essere importuno il dirne per ora questo tanto: potersi malagevolmente trovare che in alcune delle molte repubbliche e monarchie che furono in tutto il tempo di cui si ha memoria, concorressero sí fattamente insieme tante virtú e tanta felicitá, e durassero per tanto spazio, quanto nell’antica repubblica dei romani.
Ebbe adunque primieramente l’imperatrice di cui diciamo ora le lodi, questa felicitá: che nata di genti buone e valorose, ed oltre a ciò non ignobili, fu sortita ad un maritaggio molto superiore allo stato suo, sposata all’imperatore dei romani, che poco avanti, per la morte del padre, era pervenuto all’impero. Da questo innanzi non andarono le sue felicitá senza la mescolanza dei lor contrari, atteso gli assedi gravi e difficili che ci bisognò sostenere dai barbari, e massimamente quell’assedio lunghissimo e pericolosissimo che la cittá nostra ebbe a patire non molto dopo la venuta all’imperio del nuovo principe. Ma l’imperatrice, per sua virtú, fu veduta portare l’una e l’altra fortuna con grandissima moderazione: non perdersi di cuore nelle cose avverse, non si lasciare enfiar dalle prospere; ma serbare il suo convenevol modo in ambedue le condizioni dei tempi. Perciocché ella era donna di conoscimento e di fortezza d’animo piú che da femmina; siccome di castitá non cedeva il pregio a Penelope. E la rettitudine ancora non fu in lei compiutissima? certo noi sappiamo ch’ella mai non fece male ad alcuno, e che per contrario fece bene a molti e molte. E in che altro si può dir che consista la rettitudine piú propriamente, che in non far pregiudizio, di volontá nostra, a chicchessia, e far bene a piú che si può? Ancora ebbe ella, tra molte altre felicitá, questa grandissima: che ritrovandosi madre di molti figliuoli e valenti (e di questi, alcuni imperatori, altri duchi e collocati nei gradi prossimi all’autoritá imperiale), tutti gli vide concordi per lo piú tra loro; e se talvolta per avventura v’accadde alcuna dissensione, mai non li vide scorrere a cose estreme, secondo che suole avvenire spesso tra príncipi e potentati uguali; anzi, come a dir, senza alcuno strepito, comporre ogni differenza.
Questa donna di tanta bontá e virtú, e tanto, nella piú parte delle cose, bene avventurata, in etá non immatura, si parte al presente da questo secolo. E io non dirò veramente che sia cosa agevole a portar questo caso senza dolore alcuno. Perocché ancora delle altre separazioni scambievoli e delle partenze che si fanno in questa vita nostra, e piú quando elle sono credute essere per piú lungo tempo, sogliono gli uomini per natura attristarsi: siccome quelli ai quali diletta piú l’usar da vicino e presenzialmente colle persone care, onde non senza ragione, dall’altro lato, l’avere a dipartircene ci riesce duro e acerbo. Ora egli si conviene però avere questa opinione anco delle morti, vogliasi dei congiunti, o vogliasi degli amici, ovvero delle nostre proprie: cioè a dire, ch’elle non sieno altro che partenze e viaggi della parte migliore e principale dell’uomo, per un luogo (quale egli sia) che le convenga e stia bene: e non consistano giá esse in un disfacimento di tutto l’uomo. Perocché ella è una trista cosa questa sentenza, che la morte sia un venir meno e un disperdersi di tutto l’uomo; e vedesi che dove ella nasce, o sieno persone particolari o sieno cittá, tutti ella riduce a esser da meno, e a sentire piú bassamente, che non sono e non fanno quelli che tengono il contrario. Oltre di questo ella è falsa. E primieramente per questa considerazione medesima si manifesta ch’ella sia falsa: dico dal vedere che gli uomini, per seguir lei, sono peggiori che quelli della contraria. Poiché non è ragionevole che l’opinione falsa faccia migliori gli uomini, e peggiori li faccia la vera: ma senza alcun fallo, quel che fa gli uomini peggiori, quello è il falso; e quello che li fa migliori è il vero. Di poi, non bisogna che altri, attendendo a quello che l’uomo ha comune cogli altri animali, conchiuda però che tutta la nostra essenza sia prossima a quella delle bestie; ma vuolsi eziandio guardare a quelle altre operazioni dell’uomo che hanno piú del divino, e di qui conchiudere che in noi debba anco essere un’altra essenza, molto piú divina di quella degli animali.
La veritá è questa. Che presegga alla universitá delle cose un Dio unico, artefice delle medesime e governatore, e che questo sia di bontá suprema, non ci può essere alcuno (se egli non fosse però di concetti molto ben guasti), che, o discorrendo seco medesimo non lo affermi, o, udito cosí giudicare da altri, non lo confessi. Similmente, che tra questa natura e la umana debba ancora esserci un’altra natura: sia poi questa di un genere solo, ovvero distinta in piú generi: dico una natura superiore alla nostra dall’un dei lati, e dall’altro, di grandissima lunga inferiore alla divina, non ci sará chi lo neghi: perocché niuno presumerá che l’uomo sia la piú perfetta e la migliore di tutte le opere di Dio. Queste tali sostanze adunque, piú perfette di noi, ciascuno dirá non dovere essere altro che intelligenze, ovvero ancora certe anime piú eccellenti delle nostre. Ora queste sí fatte nature, quale altro atto e quale operazione avranno piú propria e piú principale, che la contemplazione degli enti? e sopra di questa, la considerazione dell’autore dell’universo? la quale è la piú eccellente operazione, e la piú beata che possa aver luogo in quelli che da natura vi sono atti. E vedesi manifestamente che l’uomo ancora è capace, oltre alla speculazione degli altri enti, anche di questa considerazione di Dio. Per tanto non diremo che la specie umana partecipi solamente degli atti delle bestie, e che solo sia occupata in quelle medesime cose che sono occupati gli animali; ma terremo ch’ella partecipi altresí delle operazioni che sono proprie delle specie superiori a lei: considerato che essa ancora adopera, per quanto può, la medesima contemplazione che è propria di dette specie. Quelle cose poi che hanno comunanza scambievole di operazioni, necessario è che di natura medesimamente abbiano comunanza; essendo pur di necessitá che le nature sieno corrispondenti alle operazioni, e le operazioni alle nature. Adunque, siccome dal vedere che l’uomo partecipa delle operazioni degli animali, conchiudesi, e ciò a buona ragione, ch’egli ha una natura simile a quella delle bestie; cosí veggendo che esso uomo partecipa altresí nelle operazioni delle specie superiori alla nostra, argomentisi ch’egli debbe avere anco una natura simile a quella di dette specie: non potendo essere che operazioni conformi non procedono da natura conforme. E però conchiudasi che l’uomo è composto di due nature: l’una di qualitá divina, l’altra corrispondente a quella delle bestie; questa mortale, ma quell’altra divina, immortale: posto che ancora quelle delle sostanze piú perfette dell’uomo sieno immortali. E certo in niuna maniera è credibile che Iddio, con essere sommamente buono, e rimoto da qualunque invidia, non abbia nelle sostanze prossime a sé, oltre agli altri doni, conferita eziandio l’immortalitá. Che se quelle sono immortali, ancora quel tanto della nostra essenza che è proporzionata alla loro, sará immortale. Perocché mai non potrá essere alcuna, eziandio menoma, proporzione da mortale a immortale, che è come dire da quella in cui la potenza di essere è terminata e caduca, a quello che l’ha perdurabile ed infinita.
Coloro eziandio che si uccidono da sé stessi (come che in ciò adoprino secondo ragione o altrimenti, che questo non rileva nulla a quel che noi vogliamo provare), danno a conoscere che l’uomo è composto di due diverse essenze, e come l’una di esse è immortale, e l’altra mortale. Perocché niuna cosa è al mondo di tal natura, che essa alcuna volta appetisca e procacci la distruzione propria; anzi tutte le cose sempre, con tutto il potere, procacciano di essere e di conservarsi. Laonde è impossibile che l’uomo, quando egli si uccide da sé medesimo, uccida col suo mortale il suo stesso mortale; ma sí bene egli spegne la natura mortale che è in lui, colla natura immortale.
Per questi e simili discorsi, che non tutti al presente è luogo di ricordarli, sappiamo che le nazioni piú antiche di cui si ha memoria al mondo, e le piú riputate, tutte parimente concorsero in questa sentenza, che le anime degli uomini fossero dotate dell’immortalitá. Come a dir gl’iberi, i celti, i tirreni, i traci, i greci, i romani, gl’indiani, i medi, gli egizi; e cosí qualunque altra vogliasi non oscura e non isprezzata gente. Adunque con buona ragione ancora noi abbiamo detto non altro essere le morti, sí dei congiunti e degli amici, e sí le nostre proprie, se non peregrinazioni della piú degna parte dell’uomo ad un qualunque luogo a lei accomodato, e separazioni degli uni dagli altri per alcun tempo solamente, e non giá in perpetuo.
Di maniera che debbe ogni virile animo sapere in sí fatti casi non difficilmente racconsolarsi; e in niun modo riputerá egli per le maggiori disavventure del mondo le morti de’ suoi: massimamente di quelli dei quali, per la virtú loro e la ben condotta vita, sperasi che colá sieno per venire in buona e felice stanza. La quale opinione è da avere altresí dell’imperatrice testé defunta, stata di quella virtú e di quella onoranda vita che tutti sappiamo. Perciocché né anche questo parrá credibile a persone d’intendimento anco scarso: che di lá i buoni non trovino, in ricompensa del merito, migliori partiti, e peggiori i rei: essendo che Iddio sia fermamente riputato giudice giustissimo e incorruttibile.