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discorso su gemisto pletone 191

ropa. E in tredici secoli, le mantenne per lo piú fiorite, sempre quasi incorrotte; per gli altri undici, le conservò essa sola nel mondo barbaro, e dimentico di ogni buona dottrina. Fu spettacolo nuovo, nel tempo delle Crociate, alle nazioni europee: gente polita, letterata, abitatrice di cittá romorose, ampie, splendide per templi, per piazze, per palagi magnifici, per opere egregie d’arti di ogni maniera; a genti rozze, senza sentore di lettere, abitatrici di torri, di ville, di montagne; quasi salvatiche e inumane. All’ultimo, giá vicina a sottentrare ad un gioco barbaro, e perdere il nome, e, per dir cosí, la vita, parve che a modo di una fiamma, spegnendosi, gittasse una maggior luce: produsse ingegni nobilissimi, degni di molto migliori tempi; e caduta, fuggendo dalla sua rovina molti di essi a diverse parti, un’altra volta fu all’Europa, e però al mondo, maestra di civiltá e di lettere.

Leggendo io la orazione di cui soggiungo il volgarizzamento qui appresso, quasi che a fatica avrei potuto credere, se bene io lo sapeva, che ella fosse del decimoquinto secolo, e non piuttosto dell’etá di Platone e di Senofonte, se non fossero stati alcuni erroruzzi di lingua rari e di poco peso; i quali non sono proceduti giá in niun modo da negligenza, ma da inganno di memoria, o da presunzione falsa dello avere gli scrittori autorevoli usato quelle tali forme di favellare, nata per non averli ben dirittamente osservati o intesi. E di questa sorte non pochi errori e non piccoli si ritrovano anche in Plutarco, in Luciano e in altri di simile antichitá: per non dire dei meno antichi, eziandio lodati, che spesse volte ne hanno in quantitá grande. Questa orazione discorre principalmente della immortalitá dell’anima, con occasione di lodare l’imperatrice Elena o Irene, morta poco innanzi, stata figliuola di Costantino Dragasi duca di una parte della Macedonia, e moglie di Emanuel Paleologo imperatore d’Oriente; la quale in sull’estremo della sua vita, prendendo abito di monaca, cangiò il proprio nome in quello d’Ipomone, che a noi sonerebbe Pazienza. Fu questa scrittura di Gemisto menzionata da Leone Allacci e da altri eruditi; e trovasi scritta a penna in piú