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discortso su gemisto pletone 195

lo spirito: effetto che io non ho mai saputo intendere come non sia utilitá. Quasi che l’uomo cercasse o potesse cercare in sua vita altro che il diletto. O quasi che il diletto gli desse tra mani cosí ad ogni ora. Ma tornando al proposito, io per me leggo con piacere uguale la Rettorica d’Aristotele nella propria scrittura greca, e nella nostrale del Caro; e non mi par gittare il mio tempo, letta che ho l’una, a leggere ancora l’altra. La qual traduzione del Caro non è però senza difetto; ma ella ha solamente quelli che dava di necessitá il tempo: nel quale di greco non sapevasi piú che tanto, e i testi degli antichi non si avevano cosí emendati come si hanno oggi.

Se non che egli è ben lungi che tale sia o mostri voler divenire lo stato nostro, da non potere i volgarizzamenti aver pregio se non nel predetto modo. E io poi sono di opinione che i libri degli antichi, latini o greci, non solo di altre materie, ma di filosofia, di morale, e di cosí fatti generi nei quali gli antichi ai moderni sono riputati valere come per nulla, se mediante buone traduzioni fossero piú divulgati, e piú nelle mani della comun gente che essi non sono ora, e non furono in alcun tempo, potrebbero giovare ai costumi, alle opinioni, alla civiltá dei popoli piú assai che non si crede; e in parte, e per alcuni rispetti, piú che i libri moderni. Ma questa sarebbe materia di un lungo ragionamento. Ora ascoltiamo Gemisto.