Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio (1824)/Libro primo/Capitolo 18
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CAPITOLO XVIII
In che modo nelle Città corrotte si potesse mantenere uno Stato libero essendovi, o non essendovi, ordinarvelo.
Io credo che non sia fuori di proposito, nè disforme del soprascritto discorso, considerare se in
una Città corrotta si può mantenere lo Stato libero, sendovi; o quando e’ non vi fusse, se vi si
può ordinare. Sopra la qual cosa dico, com’egli
è molto difficile fare o l’uno o l’altro; e benchè
sia quasi impossibile darne regola, perchè sarebbe
necessario procedere secondo i gradi della corruzione, nondimanco sendo bene ragionare d’ogni
cosa, non voglio lasciare questa indietro. E presupporrò una Città corrottissima, donde verrò ad
accrescere più tale difficultà; perchè non si trovano nè leggi, nè ordini che bastino a frenare una
universale corruzione. Perchè così come i buoni
costumi per mantenersi hanno bisogno delle leggi,
così le leggi per osservarsi hanno bisogno dei buoni costumi. Oltre di questo gli ordini e le leggi
fatte in una Repubblica nel nascimento suo, quando erano gli uomini buoni, non sono dipoi più a
proposito, divenuti che sono tristi. E se le leggi
secondo gli accidenti in una Città variano, non
variano mai, o rade volte, gli ordini suoi: il che
fa che le nuove leggi non bastano, perchè gli ordini che stanno saldi le corrompono. E per dare
ad intendere meglio questa parte, dico, come in
Roma era l’ordine del governo, ovvero dello Stato,
e le leggi dipoi, che con i Magistrati frenavano i
Cittadini. L’ordine dello Stato era l’autorità del
Popolo, del Senato, dei Tribuni, dei Consoli,
il modo di chiedere e del creare i Magistrati, e il
modo di fare le leggi. Questi ordini poco o nulla
variarono negli accidenti. Variarono le leggi che
frenavano i Cittadini, come fu la legge degli adulterj, la suntuaria, quella della ambizione, e molte
altre, secondo che di mano in mano i cittadini diventavano corrotti. Ma tenendo fermi gli ordini
dello Stato, che nella corruzione non erano più
buoni, quelle leggi che si rinnuovavano, non bastavano a mantenere gli uomini buoni; ma sarebbono bene giovate, se con la innovazione delle leggi
sì fussero rimutati gli ordini. E che sia il vero,
che tali ordini nella Città corrotta non fussero
buoni, e’ si vede espresso in due capi principali.
Quanto al creare i Magistrati e le leggi, non dava
il Popolo romano il Consolato, e gli altri primi
gradi della Città, se non a quelli che lo domandavano. Questo ordine fu nel principio buono,
perchè e’ non gli domandavano se non quelli cittadini che se ne giudicavano degni, ed averne la
repulsa era ignominioso ; sicchè per esserne giudicati degni ciascuno operava bene. Diventò questo
modo poi nella Città corrotta perniziosissimo ; perchè non quelli che avevano più virtù, ma quelli
ch’avevano più potenza, domandavano i Magistrati; e gl’impotenti, comechè virtuosi, se n’astenevano di domandarli per paura. Vennesi a
questo inconveniente, non ad un tratto, ma per i
mezzi, come sì cade in tutti gli altri inconvenienti:
perchè avendo i Romani domata l’Affrica e l’Asia,
e ridotta quasi tutta la Grecia alla sua ubbidienza, erano divenuti sicuri della libertà loro, nè
pareva loro avere più nimici che dovessero far
loro paura. Questa sicurtà e questa debolezza dei
nimici fece che il Popolo romano nel dare il Consolato non riguardava più la virtù, ma la grazia,
tirando a quel grado quelli che meglio sapevano
intrattenere gli uomini, non quelli che sapevano
meglio vincere i nimici: dipoi da quelli che avevano più grazia, discesero a dargli a quelli che
avevano più potenza. Talchè i buoni per difetto
di tale ordine ne rimasero al tutto esclusi. Poteva
uno Tribuno, o qualunque altro cittadino proporre al Popolo una legge, sopra la quale ogni
cittadino poteva parlare, o in favore o incontro,
innanzi che la si deliberasse. Era questo ordine
buono, quando i cittadini erano buoni; perchè
sempre fu bene, che ciascuno che intende un bene per il pubblico, lo possa proporre; ed è bene
che ciascuno sopra quello possa dire l’opinione
sua, acciocchè il Popolo, inteso ciascuno, possa
poi eleggere il meglio. Ma diventati i cittadini cattivi, diventò tale ordine pessimo; perchè solo i
potenti proponevano leggi, non per la comune libertà, ma per la potenza loro, e contro a quelle
non poteva parlare alcuno per paura di quelli;
talchè il Popolo veniva o ingannato o forzato a
deliberare la sua rovina. Era necessario pertanto
a volere che Roma nella corruzione si mantenesse
libera, che così come aveva nel processo del vivere suo fatte nuove leggi, l’avesse fatti nuovi
ordini; perchè altri ordini e modi di vivere si
debbe ordinare in un soggetto cattivo, che in un
buono, nè può essere la forma simile in una materia al tutto contraria. Ma perchè questi ordini,
o e’ sì hanno a rinnovare tutti ad un tratto, scoperti che sono non esser più buoni, o a poco a
poco in prima che si conoscano per ciascuno, dico, che l’una e l’altra di queste due cose è quasi impossibile. Perchè a volerli rinnovare a poco a
poco, conviene che ne sia cagione un prudente
che veggia questo inconveniente assai discosto, e
quando e’ nasce. Di questi tali è facilissima cosa
che in una Città non ne surga mai nessuno, e
quando pure ve ne surgesse, non potrebbe persuadere mai ad altrui quello che egli proprio intendesse; perchè gli uomini usi a vivere in un
modo, non lo vogliono variare, e tanto più non
veggendo il male in viso, ma avendo ad essere
loro mostro per conietture. Quanto allo innovare
questi ordini ad un tratto quando ciascuno conosce che non son buoni, dico che questa inutilità,
che facilmente si conosce, è difficile a ricorreggerla; perchè a far questo non basta usare termini
ordinarj, essendo i modi ordinarj cattivi, ma è
necessario venire allo straordinario, come è alla
violenza ed all’armi, e diventare innanzi ad ogni
cosa Principe di quella Città, e poterne disporre
a suo modo. E perchè il riordinare una Città
al vivere politico presuppone un uomo buono, e
il diventare per violenza Principe di una Repubblica presuppone un uomo cattivo, per questo si
troverà che radissime volte accaggia, che un uomo buono voglia diventare Principe per vie cattive, ancorchè il fine suo fosse buono, e che uno
reo divenuto Principe voglia operare bene, e che
gli caggia mai nell’animo usare quella autorità
bene, ch’egli ha male acquistata. Da tutte le soprascritte cose nasce la difficultà, o impossibilità che è nelle Città corrotte, a mantenervi una Repubblica, o a crearvela di nuovo. E quando pure la vi si avesse a creare o a mantenere, sarebbe necessario ridurla più verso lo Stato regio, che verso lo Stato popolare; acciocché quegli uomini, i quali dalle leggi per la loro insolenzia non possono essere corretti, fussero da una podestà quasi Regia in qualche modo frenati. E a volerli fare per altre vie diventare buoni, sarebbe o crudelissima impresa, o al tutto impossibile, come io dissi di sopra che fece Cleomene; il quale se per essere solo ammazzò gli Efori, e se Romolo per le medesime cagioni ammazzò il fratello e Tito Tazio Sabino, e dipoi usarono bene quella loro autorità, nondimeno si debbe avvertire che l’uno e l’altro di costoro non aveano il soggetto di quella corruzione macchiato, della quale in questo capitolo ragioniamo, e però poterono volere, e volendo colorire il disegno loro.