Demetrio Pianelli/Parte sesta/I
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Milano non si accorse menomamente della partenza del signor Demetrio Pianelli e, passato qualche tempo, nessuno pensava nemmeno ch’egli fosse al mondo. Solamente il buon Bianconi, che era successo al trono, discorrendo qualche volta col vecchio portiere Caramella, lo nominò, scrollandovi dietro il capo in aria di compassione, picchiando coll’indice la fronte per indicare che in quella testa c’erano delle idee dure come le noci. Il commendatore Balzalotti, con tante faccende tra le mani, fece mettere la posizione del signor Pianelli a protocollo, un librone che fa una ventina di migliaia di atti all’anno, e passò ad un altro numero.
Milano si occupò invece per una settimana della sanguinosa tragedia del Ponte dei Fabbri. I giornali s’incaricarono di fornire i più minuti particolari, inventando naturalmente quello che non potevano sapere, descrivendo la casa, la fabbrica, la morta, il vivo, la catastrofe, il sangue, le voci che correvano nel quartiere intorno al carattere e ai rapporti fra i due coniugi Pardi. Chi dava ragione al marito, chi trovava il castigo una pazzia non necessaria. Chi diceva che il Pardone — conosciuto dalle sue parti per un buon pastore — sarebbe stato condannato a venti anni: chi invece assicurava che sarebbe stato assolto e mandato a casa. Corse anche qualche scommessa tra i soliti frequentatori dei Tre Scanni; ma in queste faccende tutto dipende, pur troppo, dal modo col quale il processo viene ordito, dall’umore dei giurati e fors’anche da quello delle loro mogli.
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Chi sentì un gran colpo fu Beatrice. Il pensiero che in quella tragedia era in qualche maniera implicata anche lei; che una sua parola forse aveva deciso della vita di Palmira: la terribile fine di una donna, che in mezzo ai suoi difetti, in fondo cattiva non era, e non voleva male a suo marito: tutto ciò, in mezzo a molte altre scosse morali, rattristò tanto il suo cuore, che s’ammalò.
Dieci giorni stette in letto, ma guarì benissimo nel riposo e nella verde quiete di Chiaravalle. Arabella fu una dolce infermiera; il dottor Chiodo prestò le cure più amorose e non risparmiò le visite alla sua bella vicina di casa. Paolino, a cui la lettera di Demetrio aveva fatto un gran bene, mandò dalle Cascine i brodi più delicati e le prime alucce di pollo.
Don Giovanni, durante la convalescenza, si lasciò vedere anche lui diverse volte e sedette a intrattenerla colla storia della vecchia abbazia, dei frati di Chiaravalle, di San Bernardo fondatore dell’Ordine, dell’eretica Guglielmina, che, dopo essere stata sepolta come una santa nel cimitero della Certosa, un bel giorno scoprono che è un’anima dannata, la disseppelliscono e bruciano il corpo sulla piazza di Sant’Ambrogio. Cose che capitano ai morti!
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Beatrice ristoravasi in mezzo a queste cure. Rifiorì daccapo, mentre le piante andavano perdendo a poco a poco le foglie. Paolino, ricuperata la confidenza di prima, andava segnando sul taccuino americano i giorni che lo separavano dal gran giorno. Demetrio, uomo onesto e sincero, nella prima lettera consegnata ad Arabella e poi in altre che scrisse, dalla sua nuova residenza (dove dice di non trovarsi malaccio), ha saputo toccare la nota giusta. Non si dubita dell’onestà di una donna come si dubita del vino degli osti. L’uomo si uccide nell’onore, — scriveva il buon cugino, — la donna nel pudore. Se a questo mondo non ci sforziamo di far tacere la maldicenza e l’invidia della gente per ascoltare di tanto in tanto la voce sola e irragionevole del cuore, finiremo col non credere più a nulla, nemmeno al pane che si mangia, e allora la vita diventa un inferno, e chi trionfa è sempre il più bugiardo e il più sfacciato.
Andiamo avanti con confidenza e verrà giorno che i buoni torneranno ancora buoni a qualche cosa — così scriveva il cugino.
Si può immaginare che questi consigli furono altrettante goccie d’olio refrigerante sull’animo del buon Paolino, che un momento aveva dubitato anche lui delle cose del mondo. Ma ogni giorno più, cioè ogni passo ch’egli fa verso il sospirato giorno, la realtà che lo aspetta gli pare irraggiungibile. Tutte le volte che torna da quella benedetta casa verso le Cascine, dubita ancora che sia un sogno. La gioia, il desiderio, la immaginazione crescono a tal punto che il cuore non può contenere tutta la felicità; il piacere tocca lo spasimo, l’aspettazione si cambia in paura. Gran destino che non si possa essere felici nemmeno in mezzo alla felicità! qualche cosa di guasto ci deve pur essere nel meccanismo del mondo, — così pensava alla sua volta Paolino delle Cascine. E pare anche a noi.
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Passò anche quel mite autunno. La terra si coprì di foglie morte, e, dietro la siepe degli alberi nudi, la guglia sottile del duomo di Milano riapparve nell’aria pura degli ultimi giorni di novembre. Poi cominciarono le nebbie, che, come un mare di vapore, nascondono i prati. Seguirono lunghi giorni piovosi. Finalmente la campagna è tutta coperta di neve. Dal bianco strato e dall’orlo delle fosse, che mostrano la nera crosta della terra, i mozziconi delle piante capitozzate sporgono le braccia corte e intirizzite a un roseo sole di gennaio. Il cielo è bianco e netto, ma tira dai prati un’arietta sottile, fresca, che frusta le orecchie dei cavalli e passa i coturni di Bassano, che dalle Cascine va colla carrozza a prendere la sposa a Chiaravalle. Il gran giorno è arrivato.
Il cavallantino è in gran tenuta: cilindro di pelle, nappina nuova fiammante, guanti di lana, fazzoletto bianco al collo, con due cocche svolazzanti, di cui si serve, di tanto in tanto, per asciugarsi i baffi dalla brina.
Con lui viene il sor Isidoro Chiesa, il padre della sposa, l’uomo libero per eccellenza, vestito di nuovo, che manda dagli occhiali nuovi tutta la gioia fosforescente dell’uomo che trionfa. Avrebbe potuto esserci anche un altro signore, a cui il governo ha cambiato la greppia, e allora si sarebbe potuto dimostrare, strada facendo, che un Chiesa di Melegnano non è soltanto un gran buon uomo.
— Ci rivedremo, Filippo! — aveva promesso un Chiesa, e il giorno era venuto.
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Le Cascine sono in festa fin dall’alba. Cominciano ad arrivare le carrozze dei parenti e degli amici. S’era detto di fare una cosa modesta, senza rumore, tra parenti intimi; ma un Chiesa di Melegnano avrebbe creduto di buttare la figlia ai cani, se non avesse trascinato alla festa mezza provincia di Lodi. E non contento ancora, pagò il campanaro perchè rompesse i timpani alla gente. Le belle campane della badia annunciano ai popoli il lieto avvenimento e mettono una nota allegra nell’aria fredda ed abbagliante delle campagne coperte di neve. Non manca un raggio di sole sul celebre campanile, che torreggia dignitosamente coi suoi archi bruni, colle sue colonnine, colla sua svelta piramide, sotto un pittoresco cappuccio bianco.
Arrivano tre o quattro carrozze, in mezzo a un rumoroso tintinnare di campanelli, tra gli evviva dei ragazzi e gli spari dei fucili da caccia. La buona Carolina, che non sa covare risentimenti, finisce di dare l’ultimo tocco ai capelli della sposa, mentre l’Elisa, fatta venire apposta da Milano, aggiusta le pieghe del vestito. I maschietti Mario e Naldo, vestiti come sposini essi pure, saltano, gridano cogli altri ragazzi sotto il portichetto. Dalle Cascine sono accorse tutte le ragazze curiose che hanno potuto scappar via, e fanno colle vecchie spettinate una siepe, un muro di gente innanzi alla casa.
Beatrice sente che gli occhi le si gonfiano di pianto. In certi momenti le par di sognare, in certi altri le tornano in mente le circostanze che accompagnarono il suo primo matrimonio, e a volte non sa distinguere tra adesso e allora. Lo stesso chiasso, lo stesso tintinnare di campanelli, e sopra ogni altro rumore la stessa voce stridente del babbo, che predica, che ride, che comanda. Ogni momento le pare di vedere il suo Cesarino spuntare in cima alla scala, bello, elegante, nell’abito fresco, col cravattino bianco....
Asciugati gli occhi e ricomposto l’animo, pallida e ancora palpitante, scende, passa tra una doppia fila di persone, che gridano — Viva la sposa!
Le ragazze curiose, le vecchie spettinate, i vecchi massai, che stanno sulla porta, fanno ressa, sporgono il capo, e, congiungendo le mani in orazione, esclamano con la sincera ammirazione della povera gente: — Gesus, se l’è bela!
Le carrozze partono tutte insieme verso la chiesa. Solamente Arabella, indugiando sulla scala, s’è fermata a casa. Ritta dietro i vetri della finestra, essa stende il suo sguardo molle e afflitto sulla pianura tutta coperta di neve, pensa ai morti, pensa ai lontani e riempie l’avvenire colle ombre del suo passato.
fine.