Delle vivande e condimenti ovvero dell'arte della cucina/Prefazione del volgarizzatore
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Traduzione dal latino di Giambattista Baseggio (1852)
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PREFAZIONE
DEL VOLGARIZZATORE
Se nelle opere umane si dovesse considerare solamente la necessità, cioè soltanto quello che strettamente abbisogni alla vita, molto sarebbe da togliere siccome superfluo, anzi dannoso: laonde rivolgendo il pensiero all’argomento del presente libro, che per certo non risguarda il bisogno ma più presto l’eccesso, quasi che sembrerà a’ giorni nostri una inutilità, considerando che adesso si comanda poco riguardo ai sensi e molto allo spirito. Ma, per vero dire, le parole sono magnifiche; le quali però poco appresso sono smentite dai fatti: imperciocchè, siccome di presente si dettano leggi severe per la castità della poesia, e molte opere pure vi sono, che imprecando l’abuso della pittura, imperano si rivolga la mente e la mano a Giotto ed al Beato Angelico, e con tutto ciò si veggono ogni dì poesie idropiche e strani e tisici dipinti; così a dispetto di tutte le maledizioni contra il soverchio nei cibi, contra le indulgenze alla gola, non sono rari gli Apicii; anzi per contrapposto ai precetti si fanno continuamente di pubblica ragione opere che la gola favoriscono a meraviglia.
Che se i propugnatori dello spirito trovino quasi che una perversità quest’opera, ed ei la lascino cheta da un canto, e seguitino le contumelie contra ciò che è, non contra quello che fu; chè noi staremo contenti del loro oblìo e del loro disprezzo.
Per lo contrario, agli amatori delle leccornie sarà di conforto, perchè troveranno per mezzo del confronto, che le preparazioni della cucina moderna sono più semplici di quelle degli antichi; che oggidì si apprestano cibi più leggieri, e che si appaga la gola bensì, anzi la si appaga assai, ma si dice farlo senza scapito dello stomaco; e perciò grideranno con gioia, che i nostri sono tempi di sobrietà messi dinanzi a quelli dei Romani; senza badare però, che se gli antichi correvano alle libidini delle mense, ei però non avevano manco di virtù di animo e di corpo.
Ma fra i primi ed i secondi vi sono genti le quali amano i monumenti dei tempi che già furono, perchè in essi studiano gli uomini e le modificazioni in ragione dell’accrescimento successivo dell’amore di famiglia, di città, di popolo: in somma in ragione del progresso della civiltà. E per questo nobile e generoso affetto non ispregiano mai qualsivoglia reliquia della veneranda antichità, nè credono, siccome pare che adesso alcuni si credano, che quello che è sarebbe, dove i vecchi non avessero studiato e fatto assai. A quelli dunque non riuscirà sgradevole la nostra fatica; e se ad essi, come è pur facile, il volgarizzamento sia inutile, tuttavia non isdegneranno rivolgere l’occhio alle nostre annotazioni, con le quali abbiamo procurato di chiarire nomi e cose fino adesso non bene chiarite, od almeno tutt’ora in dubbio.
Premesse queste poche parole generali, vogliamo spenderne alcune altre intorno il libro, e particolarmente intorno il nostro lavoro.
L’opera alimurgica che passa sotto nome di Apicio è una compilazione fatta da più libri di Cucina, cioè da quelle note che d’ordinario scarabocchiano i cuochi, per tenere memoria o di manicaretti da se inventati, od apparati da altri: e debbe averla fatta tale, che nemmeno doveva essere cuoco di professione, imperciocchè qua e colà si trovano lacune che un cuoco non avrebbe lasciate. Mancano quasi che sempre le proporzioni fra gl’ingredienti delle composizioni, locchè dimostra, che ai cuochi scarabocchiatori delle note bastava la denominazione degl’ingredienti medesimi per operare di pratica, accomodandosi nel resto al gusto de’ loro signori. Per la qnal cosa, colui che trascrisse, raffazzonando in questo luogo e in quello il linguaggio delle cucine, nè sapendo proporzionare le sostanze, ammucchiò cose sopra cose, ed ignorando affatto le manipolazioni, ha non di rado interpolato col suo, talchè ne uscì di tratto in tratto una mirabile confusione.
Il nome di Apicio apposto al libro, evidentemente è una gherminella del compilatore, inventata per dar fama all’opera. Infatti quale altro nome più celebre fra i ghiottoni di quell’Apicio che visse regnando Tiberio? Supponendola dunque sua fattura, meritava il rispetto di tutti i golosi, e diveniva, il codice irrefragabile di tutti i cuochi. Nè s’ingannò colui, imperciocché la menzogna passò felice per più secoli, finché fra gli studiosi si trovarono critici acuti i quali dalla inegualità dello stile, dalla volgarità dei modi e dalle voci straniere introdotte, conobbero il vero, e ritenendo l’ opera siccome monumento prezioso di antichità, non vollero perdere ulteriormente il tempo cercando fra le tenebre il nome del compilatore.
Ma in qual tempo fu fatta questa compilazione? A tale domanda crediamo che nessuno possa rispondere assolutamente. Il Lister la suppone fatta a mezzo l’impero Romano, e promulgata per copie più tardi, allorché le buone lettere erano scadute assai dalla primiera eleganza. Ne determina l’epoca, che per suo avviso sarebbe dopo Eliogabalo, traendone indizio da ciò che costui vi si appella non col proprio some ma con quello infame, appostogli, di Vario. Osserva che Ateneo, vissuto regnando M. Antonino il Filosofo, facendo menzione d’infiniti libri di cucina, di questo non parla; e conchiude che si abbia acquistato celebrità soltanto regnando Valeriano. Esaminiamo adesso quanto possa tenere la opinione del Lister. Lo stile, come più sopra dicemmo, è ineguale, perché la collocazione delle parti varia spesso, ansi diremo tanto quanto variavano le note, dalle quali il compilatore toglieva e raffazzonava. Alcune fra le manipolazioni si conoscono essere state descritte anticamente assai, trovandovi vocaboli obsoleti, come in Palladio. Altre si chiariscono posteriori, altre noi crediamo più recenti, appunto perché nella descrizione vi sono meschiate parole greche e barbare in buon dato. Anzi è assai probabile che la compilzione sia antica di molto, e vi si sieno aggiunte formole, mano naano che s’inventavano ed erano celebrate novelle preparazioni per le mense. Sopporre che il compilatore fosse Africano, come per alcuni fu creduto, appunto pei vocaboli greci e specialmente pei titoli greci dei libri, è supposizione senza fondamento, come pare è quell’altra che tutto il libro fosse quasi una traduzione dal greco. E forse che non si sa che ai tempi degli imperadori di Roma erano saliti in gran fama e quindi superbissimi i cuochi della Grecia e della Sicilia? Noi leggiamo in Ateneo come un cuoco greco rispondesse a tale che il dileggiava:
............. nescis cum quo verba
Facias? permultos novi ex accumbentibus
Meâ qui caussâ bona sua dilapidarunt.
Qual meraviglia, se copiando le formole delle manipolazioni dei greci, e voltandole in latino, si ritenevano qua e colà parole usate da coloro? A’ nostri giorni in che godono del primo onore i cuochi di Francia, gl’Italiani si vergognerebbono di non usare nelle cucine le parole di quella nazione. Ciò basta, crediamo, perchè dalla mescolanza del greco col latino, non si possa determinare che il compilatore fosse un forestiero, e la età della compilazione. Concludiamo dunque non potersi asserire col Lister che il libro non fosse bene conosciuto innanzi Valeriano, perchè mancano valevoli documenti a provarlo; che l’età delle formole non è una, ma molte; che dopo la prima compilazione altre formole debbono essersi aggiunte, e questo forse sino alla caduta dell’Impero d’Occidente; che in somma riuscire con onore in questa ricerca è, se non impossibile, almeno estremamente difficile, e che al postutto sarebbe anche inutile, come più sopra dicemmo che molti hanno pensato.
Tutto ciò in riguardo alla compilazione, cioè in riguardo alle parole. In quanta si spetta alle cose, aggiungiamo quello che segue. Sono accusati non senza buona ragione i Romani di sterminata ghiottornia, e Seneca, Petronio, Marziale, Giovenale hanno schizzato abbastanza di veleno contra i loro contemporanej. Nè il posteriore Macrobio gli ha risparmiati, accusando e l’oratore Ortensio ed il console Metello ed altri per troppa concessione alla gola. E noi non iscenderemo a difendere le somme cure di coloro per nutrire quadrupedi e pesci o io quel paese od in quella altro per averli squisiti, e le enormi spese per trarne da lontane regioni; ma soltanto diremo che fatta eccezione dagl’individui, la loro cucina in massima era meno lontana dalla nostra di quanto forse taluno si crede. In fatti, ciascuno può osservare nelle salse di Apicio, che tolte le troppe erbe aromatiche e sostituite le droghe di che usiamo presentemente, sono simili quasi che in tutto a quelle de’ nostri cuochi. Non si costumano più porcelli, lepri ed agnelli ripieni, ma quant’è che in Francia si costumavano ancora? I ghiri e le gru non sono più per noi cibo squisito, ma ai tempi del Boccaccio le gru comparivano pure in sulle mense dei doviziosi, e ne fa prova la novella di Chichibio. Ciascheduno ride degl’imbandimenti di lingue di pappagalli, ma pochi sanno che Agostino Chigi nel 1518 offerì a Leone decimo in un convito più che un piatto di quelle lingue. Le ortiche di mare si apprestavano eziandio ai giorni dell’Aldrovandi, cioè correndo il secolo XVI medesimo. Il libro del Platina de honesta voluptate mostra come con leggiere modificazioni le imbandigioni di Apicio si accomodavano ai tempi suoi, e ciascuno che voglia guardarvi vedrà, che con altre ugualmente leggiere sono le stesse de’ nostri giorni.
Alcuni, e fra questi anche il Lister, credono, e ’l credono con buona ragione, che nei tempi delle irruzioni dei barbari l’apprestamento dei cibi siasi mutato, ma non già per quella causa ch’egli estima, cioè perchè questi si nutrivano di formaggio e carni mezzo crude, ma sì veramente perchè fra i saccheggiamenti, gl’incendi e le stragi il lusso delle cucine non aveva più luogo, nè poteva averlo. Perchè in quei giorni di somma miseria più non bisognava che un tozzo di pane, e pure averlo era difficile. Non è già che i signori influissero col proprio esempio nel gusto de’ loro schiavi, ma la necessità spingeva questi in qualche modo ad imitarli. E che la sola necessità forzasse gl’Italiani a mangiar male non potendo meglio, si dimotra con ciò, che appena tornò la pace nelle nostre contrade, appena il commercio nelle città, l’agricoltura nei campi, ripresero i loro diritti, si trovano nelle storie narrazioni di sontuosi banchetti che per nulla invidiavano quelli dei Romani durante ancora l’impero. La cucina non si è essenzialmente mutata, soltanto che noi mangiamo meno e chiaccheriamo assai più.
Pel volgarizzamento, essendo finalmente tempo di parlarne, ci siamo attenuti al testo, pubblicato dal dotto Humelberg nella edizione data dal Lister ch'è, crediamo, la più stimata; soltanto che, non di rado ci avvenne trovare che la puntazione non conveniva per la esatta espressione della idea: quindi dovendosi riprodurne il testo medesimo, qua e colà ci permettemmo mutarla collocandola là dove ci è paruto piú ragionevole. I commenti dell’Humelberg medesimo sono per la maggior parte assai ragionevoli, e se talvolta ha dato in fallo, fu perchè nulla sapendo di storia naturale toglieva ciecamente da altri: ma alquanti strafalcioni al Lister medico e naturalista assai riputato non si possono perdonare. Noi avendo procurato nelle nostre annotazioni di chiarire il testo, specialmente in ciò che a naturale istoria si spetti, abbiamo ugualmente tentato di rettificare quelle che ci sono sembrate inesattezze tanto dell’Humelberg come del Lister.
Spesso, come si doveva, ricorremmo al Lessico del Forcellini, particolarmente nei passi oscuri, sperando trovarvi le opportune dichiarazioni, ma pur troppo quasi che sempre trovammo oche il passo riportato si rimaneva nella medesima oscurità, o che la interpretazione mutava la idea. Credevamo che il Furlanetto nella sua ultima edizione del Lessico medesimo, siccome nel Frontispizio pomposamente dice correctum et auctum, avesse veramente corretto e cresciuto; ma con nostro dolore, ci siamo convinti, che alle parole non corrisposero i fatti, almeno per Apicio nostro. In questo luogo e in quello si troveranno accennate le nostre osservazioni in proposito.
Agli animali e vegetabili mentovati in quest’opera abbiamo apposta nelle annotazioni la nomenclatura Linneana. Le sinonimie venute dopo, abbiamo tralasciate, credendo bastasse la prima a far conoscere l’animale od il vegetabile di cui si favella. Onde assicurarci nel caso di dubbio, abbiamo avuto ricorso pei primi al Rondelet, al Salviani, all’Aldrovandi, al Klein, al Brisson ec. Pei secondi, al Teofrasto dello Stapel, al Plinio dell’Arduino, al Mattioli, al Dodoneo, all’Alpino, al Closio, ai Lobel, al Pinax del Bauhin, a Garcia dell’Orto, al Morison, ec.
Se supponessimo di aver fatto sempre bene col nostro lavoro, sarebbe superbia imperdonabile; questo diremo soltanto: cioè, di averlo sempre coscienziosamente desiderato.