Delle speranze d'Italia/Occasione di questo scritto
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OCCASIONE
DI QUESTO SCRITTO
§ 1.º Come il sanno oramai tutti i colti Italiani e non pochi stranieri, il Gioberti è uno de’ filosofi principali della Cristianità. Fattosi conoscere ed ammirare a un tratto colla Teoria del soprannaturale, egli pubblicò successivamente parecchie altre opere, con quella fecondità che è prima virtù e primo segno di grandezza. E, filosofo cattolico, egli è uno de’ maestri senza dubbio (giudichi altri de’ gradi) in quella scuola italiana, che si distingue dalle simili per una cattolicità, una teologia più esatta o sola esatta. — Ma l’assunto mio non è filosofico. Il Gioberti, abitatore di paesi stranieri, aveva da questa sua situazione una libertà di scrivere che non è nella penisola italiana. E il Gioberti non era uomo da non valersene. Italiano sviscerato, e, se fosse lecito dire, esagerato, frammischiò in tutte le sue speculazioni di filosofia non poche considerazioni di storia, ed anche di pratica italiana; e lasciando ora, non il genio, ma la forma filosofica, facendo di ciò che era accessorio nell’altre, assunto principale di una nuova opera sua, ei ci ha dati testè due importantissimi volumi Del Primato morale e civile dell’Italia.
§ 2.º Questo titolo è molto indeterminato. Di qual primato vuol parlare l’Autore? Di quei due che furono tenuti già dall’Italia Romana, e dall’Italia del medio evo tra il secolo xi e il xvi? Ma questi sono noti e conceduti da tutti gli uomini di qualche coltura; nè, spogliati di narrazione e ridotti a discorso, sarebbero stati degno assunto del potentissimo scrittore. — Ovvero, il primato rivendicato sarebb’egli uno presente? Ma questa sarebbe illusione così contraria pur troppo ad ogni fatto, che niuno amor patrio per quanto accecato egli sia non se la può fare; ondechè nemmen questo non sarebbe stato assunto concordante coll’incontrastabile sincerità dell’autore. — Quindi fin dal titolo, il leggitore entra naturalmente in pensiero, che il primato così asserito da tale scrittore sia piuttosto un primato futuro, in potenza, in isperanza, e da procacciarsi per opera di coloro che tengono in mano i patrii destini. E tale mi pare in fatto il primato di che si discorre nella parte incomparabilmente maggiore dell’opera1.
§ 3.° E quest’è che distingue l’Autore da quel volgo o gregge di scrittori, i quali assonnan l’Italia, rimescolandole passato, presente e futuro. Del passato, dei due primati veri e certi di lei, costoro le parlano a quella guisa, che i seni adulatori a’ nobili e degeneri padroni; vantando le glorie antiche quasi presenti, le azioni degli avi quasi dispensa d’azione ai nepoti, la nobiltà quasi non memoria ma eredità di virtù. Non contenti delle glorie vere, costoro ne inventano delle false; perchè, a modo d’ogni avvilito piaggiatore, o non capiscono le prime, o sanno di farsi più merito colle seconde. Così è, che all’Italia, dominatrice già di tutto il mondo occidentale, riunitrice di tutte le maggiori civiltà antiche, serbatrice poi delle reliquie di esse, centro predestinato della religione cristiana, ordinatrice prima e rinnovatrice poi della disciplina ecclesiastica, rinnovatrice ed accresciti ice dei Comuni, rinnovatrice della civiltà e di tutte le colture, all’Italia scopritrice dell’Asia Orientale e, dell’America, all’Italia madre, oltre ai Latini, di Gregorio vii^ di Marco Polo, di Dante, di Raffaello, di Michelangelo, di Colombo, di Galileo e di Tolta, costoro vanno dissotterrando tuttodì non so quali glorie ignote, non so quanti grandi uomini oscuri, non so quali disputabili principii di qualsivoglia scoperta straniera. — Peggio assai quando costoro toccano al presente. Qui è il campo degli adulatori; qui versano consolazioni, incoraggiamenti agli ozii, ai vizii, al beato far nulla, al far male. Non siamo noi felici, operosi, gloriosi quanto ogni altro? Quai campi più colti, quali città più crescenti, quali popoli più sapienti o più virtuosi, quali aure (perciocchè del clima stesso fan meriti), qual clima, qual cielo, qual paradiso? Quante opere sopratutto e quanti uomini utili, grandi, immortali? I quali si ringrazino dunque e si benedicano essi prima d’essersi fatti immortali; ma se ne ringrazino poi anche il principe, i mecenati, il buon popolo, il paese, tutti quanti. Chiaro è: non è nulla da fare, nulla da rifare o mutare; nulla se non vivere gaudenti. — E chiaro è massimamente poi: non è da far nulla per il futuro. Anzi, di questo, meglio è non parlare, non fiatare, non nominarlo. Chi ne parla, chi vi fruga, chi ne spera o teme o s’inquieta, è uomo inquieto, pericoloso, perseguitabile, sotto i nomi nefandi di progressista, liberale, rivoluzionario e repubblicano.
§ 4.° A chiunque abbia per poco conosciuto o letto il Gioberti, non è mestieri dire che egli è scrittore opposto a costoro. Non entro a cercare, s’ei distingua sempre con sufficiente precisione il passato, il presente e il futuro italiano; se nel suo labile argomento egli eviti sempre la esagerazione delle lodi; se le témperi colla virile comparazione dei biasimi; se virile uomo quanti altri mai, ei sia sempre virilmente severo, come quei Dante ed Alfieri da lui meritamente lodati. Quando il Gioberti fosse caduto in questi ed altri difetti; essi sarebbero un nulla rispetto ai meriti. E non dico de’ letterarii, non della lingua facile e pura di tutte le pedanterie, non della ammirabile eloquenza, nè della sapienza; il merito sommo di lui è l’aver parlato di quel futuro della patria, di che tanto si parla in altre patrie, di che tanto si tace nella nostra; d’averne parlato, egli apertamente, egli più grandemente e più moderatamente che nessuno de’ predecessori; ondechè, contro all’aspettazione forse di alcuni derisori, ne parlò egli filosofo, in modo molto più pratico, che non fecero que’ pochi storici od uomini pratici, i quali toccarono timidamente il pericoloso assunto. Questo fa del libro di lui più che un libro, un’azione; ed un’azione che non può se non giovare alla patria. Il tema è oramai riaperto. Seguiranno altri, criticando, correggendo; scemando, ampliando. Il tema sarà sempre stato riaperto da lui; le discussioni non faranno se non aggiungere al merito ed all’utile di colui che lo trattò in modo da metterlo in mente e in cuor di tutti.
§ 5.° Io non sono se non uno di questi che verranno, così voglia Iddio, numerosi sulle pedate del Gioberti. Se così fo, egli è perchè consentendo in grandissima parte co’ pensieri di lui, pur mi scosto o mi pare scostarmi da parecchi, che sono o mi paiono importanti alla nostra patria comune. Se la gravità dell’argomento potesse lasciar luogo qui alle vanità letterarie, io non vorrei correre nè il pericolo di essere confrontato, nè quello d’essere contraddetto da uno scrittore così potente. Ma da ogni confronto spero mi salvino la forma e la mole stessa del mio scritto; e quanto alla contraddizione, ella mi si rivolgerebbe in onore scendendo da uno scrittore maggiore. — Del resto, attendendo io a discutere le opinioni pubbliche diffuse nella patria nostra, anzichè non quelle personali del Gioberti o di nessun altro, se nominerò lui più che altri, egli è perch’ei mi pare scrittore più importante; ma noi nominerò nè dappertutto dove abbiamo pensieri comuni, nè dappertutto dove diversi; ondechè io prego i leggitori di non applicare a lui niuna critica dov’io noi nomini, siccome quella, la quale o non volli applicare a lui, ovvero applicherei con riserve e spiegazioni, nelle quali non posso entrare in così breve scritto.
§ 6.° Niuna patria è più amata che la nostra da5 figliuoli. Ma, colpa delle rare e difficili discussioni degli interessi di lei, colpa del non poterci intendere, niuna è forse più diversamente amata; ed è grande sventura. Non perdiamo il tempo almeno in discussioni, nomi, ed interessi personali. E del resto, qualunque protesta mia d’avere scritto con animo libero ma moderato, d’aver cercato il ben della patria ma non il mal di nessuno, nemmeno degli avversari di lei, sarebbe inutile qui a chi non abbia letto; e non sono senza speranza che abbia ad essere anche più inutile poi, a chi avrà letto con pari intenzioni.
Note
- ↑ Il fecondo Gioberti ha pocanzi pubblicato un nuovo volume Del Buono. E in esso parlando del Primato, egli lo dice «un’opera indirizzata a nudar le piaghe della mia infelice patria e a proporre i rimedi». P. lxxxv.