Dell'uomo di lettere difeso ed emendato/Parte seconda/10

Parte seconda - 10. Avvisi intorno al pericoloso mestiere di scrivere contro altrui , e alla maniera di difendere sua ragione.

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Parte seconda - 10. Avvisi intorno al pericoloso mestiere di scrivere contro altrui , e alla maniera di difendere sua ragione.
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10.

Avvisi intorno al pericoloso mestiere di scrivere contro altrui, e alla maniera di difendere sua ragione.

Non basta, per avviso di chi sa poco e ardisce molto, aver fin’ora detto, come un Calzolajo, che di suo mestiere non s’alza ultra crepidam, non de’ voler salire fino alla faccia, e condannare un volto disegnato e dipinto da Apelle, il cui magistero, com’egli non ha occhi dotti sì che l’intendano, non dee avere lingua ardita di condannarlo. Resta ancora a dirsi di ciò, che richieggono i contrasti fra gl’intendenti, perchè riescano a livello della ragione, e conforme alle misure del retto; sieno poi essi o impugnazioni degli altrui scritti, o difese de’ proprj.

E quanto allo scrivere contro altrui, come l’amore della verità convien che sia quel solo, che metta in mano la penna, e in certo modo faccia lo Scrittore suo Cavaliere; così la modestia dee essere la maestra, che insegui l’arte di maneggiarla, usandola non come lancia di Soldato, ma come lancetta di Cirugico, contro all’errore per ammenda, non contro all’autore per offesa: mostrandosi in ciò buono scolare della divina Sapienza, il Verbo; la cui bocca nelle Cantiche1 si paragona non alle rose, che pure sono di colore che più d’ogni altro fiore rassembra le labbra, ma si assomiglia a’ gigli: e questo non tanto perchè la candidezza della Verità, propria e naturale della bocca di Cristo senza pittura o abbellimento forestiere, da sè sola bastevolmente risplende, ch’è ingegnosa sposizione di Teodoreto2; ma ancora perchè il giglio è un fiore non meno [p. 61 modifica]innocente che bello, senza spine o ruvidezze che aspro e pungente lo rendano. Flos sublimis, disse Sant’Ambrogio3 di Cristo ritratto nel giglio, immaculatus, innoxius; in quo non spinarum offendat asperitas, sed gratia circumfusa clarescat.

Le stelle, mentre contra Sisara combatterono, non ruppero l’ordinanze, non usciron di posto, nè si scomposero in farlo: Manentes in ordine et cursu suo, adversus Sisaram pugnaverunt4. E tanto è di dovere che faccia chi si prende a scrivere contro altrui, che pur’è un combattere non senza vittoria, ancorchè senza sangue. Conviene avvertire, che in correr le lance delle sue ragioni non si perdan le staffe, e con questo il merito d’ingegnoso resti vinto dal difetto d’appassionato: che non si calchi il fasto di Diogene, rendendosi condannevole coll’atto medesimo di condannare.

Il convincere uno d’errore, è mettergli la mano nella piaga, e toccargliela fino al fondo; operazione da farsi con isquisita dilicatezza, perchè la cura non metta spasimo, dove la piaga faceva solo dolore. Ippocrate, discretissimo comanda5, che gli occhi degl’infermi, come parte troppo dilicata, s’asciughino con sottilissimi panni lini, e le ferite si nettino con morbidissime spugne, e l’un’e l’altro si faccia destrissimamente e con somma leggerezza di mano. E prima di lui il Protomedico San Raffaello ordinò al giovinetto Tobia, che nella cura degli occhi del cieco suo padre, prima d’applicarvi il fiele per medicina, gli desse un bacio per amore: Osculare eum; statimque lini super oculos ejus ex felle isto6. Uguale avvedimento ci vuole in chi pretende illuminare gli occhi dell’ingegno di chi erra; facendo, che il fiele del rimproverare altrui il suo errore (che, quando bene non fosse altro che publicarlo, pur³ è collirio di grande amarezza) non sia disunito dal bacio, nè il bacio disgiunto dall’amore.

Carneade Academico, volendo scrivere contra Zenone padre della rigida Setta degli Stoici, con una traboccante [p. 62 modifica]d’elleboro si nettò da’ cattivi umori e massime della bile lo stomaco, acciochè i loro fumi non gl’intorbidassero in quell’azione importunamente l’ingegno. Ne quid e corruptis in stomacho humoribus ad domicilium. usque animi redundaret, disse Gellio di lui7. Chi ha purgato il cervello, e sa quanto basta per ciò che intraprende ad impugnare, non lasci di purgare le amarezze della bile; sì che sia ugualmente incolpabile la dottrina, e la sua dettatura.

Accordi gli affetti dell’animo alla musica della ragione; onde lo stile, con che si recita il fatto suo, non abbia nè durezza nè dissonanze. Non esca a combattere prima di fare alle Grazie quel sacrificio, che l’amenissimo Platone al ruvido Senocrate consigliava8. Poi vada come que’savj e forti Spartani, ch’entravano in battaglia non al suon di strepitosi tamburi, ma di ciaramelle e di flauti. Ut modestiores modulatioresque fierent, disse Tucidide appresso Gellio9. Altrimenti, chi non è come voi appassionato, vedendo le scomposte vostre maniere, ne avrà nausea e disdegno. Si dirà anche a voi come a Filemone suo antagonista, e per ignoranza de’ Giudici ancor vincitore, diceva il Poeta Menandro: Quæso te, bona venia, dic mihi: cum me vincis, non erubescis? Fate quantunque buoni sapete i colpi, se non siete altrettanto modesto quanto efficace, guadagnerete il titolo di quel crudo Cirugico di Roma10, che per la fierezza con che indiscretamente tagliava, perduto il nome di Cirugico, l’acquistò di Carnefice.

Più malagevol cosa è, che stia a segno di ragione chi provocato pare che abbia così più libero il risentirsi, com’è ragionevole il dolersi. Questa è una di quelle non ordinarie tempeste, per cui è necessario il Timone di Rispetto d’una straordinaria padronanza de’ suoi affetti, sì che or con ischerma e or con forza si deluda e si rompa la gagliardia e gl’impetuosi assalti dell’onde. Quel moderamen inculpatæ tutelæ fin dove è lecito giungere nel difendersi, è una linea sì difficile a toccarsi senza trascorrerla, come a chi [p. 63 modifica]corre giù per la china d’un monte malagevol riesce, quello anzi precipizio che corso, essere ubbidito da’ suoi piedi e dalla mole tutta del corpo, si che di 11, ove doveva fermarsi, non si traporti più oltre alcuni passi.

S’io taccio, parrà che da me stesso io mi confessi reo. S’io non rispondo ardito, sembrerà rimordimento di colpevole coscienza quello, che sarebbe dettame d’innocente modestia. Così diverrò il zimbello degli Scrittori, e lo scherno del Mondo: chè anche alle statue di Giove i Ragni fanno le tele intorno al volto e su la barba; nè temono il fascio de’ suoi fulmini, perchè sta in mano a un Dio di legno insensibile e insensato. Rispondere ad uno, sì che ne porti stracciati i panni e livido il volto, sarà avvisare in un solo tutti gli altri, che si guardino d’aguzzare troppo arditamente le penne contro chi sa voltarle in saette, e rispondere ad inchiostro con fiele e a punture con piaghe. Così cadono i fulmini dalle nuvole, paucorum periculo, multorum metu11. Uno ne arde per pena, tutti ne gelano per timore; e la morte d’un solo insegna a molti a temere il Cielo anche sereno, raccordando com’ei fulmina quando è cruccioso.

Con ciò molti vi sono, che abbandonandosi allo sdegno, per dir loro ragione, metton da parte ogni ragionevolezza. E non s’avveggono i ciechi, che lo sdegno in chi disputa è d’ordinario argomento di debolezza e segno di perdita; sì come la quiete e ’l riso è testimonio di vittoria. Così quel Principe, amico di Sidonio Apollinare, allora si stimava vincitore nelle dispute, quando lo sdegno dell’avversario lo confessava12. Oblectatur commotione superati; et tunc demum credit sibi cessisse Collegam, cum fidem fecerit victoriæ suæ bilis aliena.

Di più, sì come ad ogni opposizione di qualunque emulo non vuole rispondersi (onde per ciò bellissimo parve quel detto di Senocrate13, la Tragedia non degnar di rispondere all’ingiurie che la Commedia le dice); così ancora non ogni opposizione, a cui si debba risposta, vuole una [p. 64 modifica]tempra medesima di risposta. Quando le saette non forano altro che la pelle, a che dibattersi e smaniare, come se ci avessero trafitte le viscere? basta far come l’Elefante che di cento saette si scarica con una leggiere scossa di vita, e

          Mota cute discutit hastas14.

Anzi si ha tal volta si manifesta la sua ragione, che di vantaggio è mostrare quel che si potrebbe dire, senza ně par degnare di dirlo. V’è animale o meglio armato per sua difesa, o più pronto all’altrui offesa dell’Istrice? Il Porco spino, disse il Poeta15,

          Externam non quærit opem. Fert omnia secum;
          Se pharetra, sese jaculo, sese utitur arcu.
          Unum animal cunctas bellorum possidet artes.

Ma contra chi l’attizza, ancorchè ell’abbia tutte le spine del suo corpo come saette in cocca, non però tutte le lancia; e ciò che può con una, non fa con due; e se basta minacciare, non ferisce16;

                                   Iraque numquam
          Prodiga telorum, caute contenta minari,

Solo rizza le spine, e, quasi mettendole su l’arco, parè che dica a chi l’offende: Che si, che sl. Questa maniera d’Apologia usò Tertulliano scrivendo contra i Valentiniani17. Ostendam (disse), sed non imprimam vulnera. Si ridebitur alicubi, materiis ipsis satisfiet. Multa sunt sic digna revinci, ne gravitate adorentur.

Ma quando o l’importanza della materia o l’insoffribile acerbezza di chi provocò non laseia che si taccia o dissimuli, prendasi seriamente la difesa, e vi s’adoperi ciò che sa e ciò che può l’ingegno, l’arte, la ragione, e l’eloqueuza. Si tuoni, si fulmini; ma sieno i fulmini non composti di zolfo puzzolente per ammorbare il mondo, ma di purissima luce per rischiarare la verità. Non lanciati sregolatamente dal furore, ma librati giustamente dalla ragione. Vi sia, come in Giano Dio della guerra, volto di giovane e di vecchio, gagliardia e senno, forza e maturità, [p. 65 modifica]impeto e moderazione. Non abbia il Crisostomo a lamentarsi18 quod tanquam Lupi in adversarios ruamus, sæpe sine victoria: qui tamen vinceremus, si Oves essemus, a pastoris auxilio non recedentes, qui non Luporum sed Ovium pastor est.

Felici le Lettere, se i loro Maestri usassero frą sè l’emulazione e i contrasti nella maniera, con che già amichevolmente contesero Protogene e Apelle nel tirare in mezzo ad una sottilissima linea un’altra linea più di quella sottile, senza uscire un punto dal dritto. Se le acutissime e splendidissime armi dell’ingegno fossero, come di certe altre disse Cassiodoro19, Arma juris, non furoris, raggi di verità, non saette di maldicenza. Ma in fine la sperienza dimostra, che le liti dell’ingegno, di civili ch’esser dovrebbero, per lo più diventano criminali: onde meglio sarebbe, a giudicio mio, quando l’interesse del publico: bene altrimenti non persuada, voltar le spade e le lance in vomeri e in marre, e cultivare l’ingegno suo anzi che combattere contra l’altrui. Che se pure il solletico di contradire non ci lascia viver quieti altrimenti che inquietando altrui, mancano (come scrisse Girolamo ad Agostino, ricusando di venire con lui a cimento d’ingegno e a disputa), mancano publici Maestri d’errori, Eretici, Ateisti, Politici da impugnare? Si lascino gli uomini, e s’uccidan le fiere. Dicasi con Entello, quando, in vece di Darete nemico, ammazzò un Bue20:

               Erice, a te quest’alma
          Più degna di morir offrisco in vece
          Di quella di Darete. E vincitore
          Qui ’l cesto appendo, e qui l’arte ripongo.

Note

  1. Cant. 5.
  2. In cap. 5. Cant.
  3. Lib. 7. in Lucam.
  4. Jud. c. 5.
  5. Libro de Medico.
  6. Tob. 11.
  7. Gell. I. 17. c. 55.
  8. Laert. in Xenocr.
  9. L. 2. c. 11.
  10. Plin. l. 19. c. 1. Archap.
  11. Sen. de Clem. l. 1. cap. 8.
  12. Sidon. lib. 2. Epist. 2.
  13. Laert. in Xenocr.
  14. Lucan.
  15. Claud. in Hystr.
  16. Ibid.
  17. Cap. 6.
  18. Homil. 34. in Matth.
  19. L. 7. Ser. 1.
  20. Æneid. lib. 5. A. Caro.