Dell'uomo di lettere difeso e emendato/Parte seconda/11

Parte seconda - 11.Stima del suo sapere, con dispregio dell'altrui.

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[p. 66 modifica]Stima del suo sapere, con dispregio dell’altrui.


Non è sì piccolo il capo d’ un’ uomo, che, meglio del favoloso utre d’ Ulisse, non sia capace di quanti venti spirano fasto e alterigia, niente meno gagliardi per metter sossopra la terra e il mare, di quello che sieno i turbini per sollevar tempeste, e l’ esalazioni imprigionate nelle caverne sotterra per riscuoterla con tremuoti. Lo sanno per lor parte que’ miseri Letterati, che, non so s’ io dica pieni o anzi vuoti di sé stessi, si veggono andar sì trionfj, che sembrano portar sé stessi in carro e in trionfo. Essi sono i Sauli, che tengono sopra gli altri, ab humero et sursum, non la testa tanto, come il cervello e la mente. Essi gli Olimpi, a cui le più altere cime de’ monti, i più sollevati ingegni, e l’ anime di più sapere appena giungono a pareggiar le falde, e a baciare i piedi essi i Soli, che soli hanno luce per rischiarar tutto l’ oscuro, e oscurar tutto il chiaro.

Costoro non so se cavassero più le lagrime da Eraclito per compassione, o le risa di Democrito per ischerno. Benché, vi par’ egli che sia degno del pianto d’ un Filosofo, e non anzi delle risa del volgo, un’ Alessarco di professione Grammatico? a cui parendo la sua scuola un cielo; Gli ordini delle panche, che gli stavan d’ attorno, giri di sfere; i fanciulli, che l’ udivano, stelle; i suoi insegnamenti, luce; i nomi, i verbi, i pronomi, gli articoli, ecc, segni del Zodiaco; sé stesso facea un Sole, né voleva essere altrimenti o dipinto o chiamato; ed era colpa, mirarlo senza un certo patimento de gli occhi, come quando nel Sole si affissano. Più gli s’ adatta quel titolo, che Tiberio soleva dare ad Apione Grammatico come lui, e niente meno di lui millantatore, vuoto di senno, e pieno di vento, e per ciò acconcimente detto Cymbalum mundi. [p. 67 modifica]


Che vi par di quell’ altro, Rennio più tosto Pallone che Palemone, che andava per le publiche vie piangendo la disavventura del Mondo, che dopo lui si rimarrebbe, com’ era prima di lui, ingnorante; poiché le Lettere, nate con lui, con lui avevano a morire? E in fatti parve che fosse vero; poiché, morto lui, non si trovò né pur’ una lettera, che venisse a scrivergli l’ epitaffio.

Ma oltre a’ termini dell’ ordinaria, anzi pur dell’ umana alterezza passò il superbo concetto, che dell’ ingegno e saper suo avea Alfonso X. Re di Castiglia: uomo di professione Astronomo (di cui vanno attorno le Tavole da lui dette Alfonsine); non però di sì sublime intendimento, né di tanto sapere in quest’ arte, che Atlante gli avesse potuto fidare il Cielo alle spalle, senza pericolo di rovina; ma di sì alta stima della sua testa, che solea dire, che s’ eifosse stato all’ orecchio di Dio quando componeva i Cieli e assegnava i periodi alle stelle, gli avrebbe insegnato a disporre questo lavorio con più ordine e con regola di più aggiustate proporzioni. Or vada Dio a chiedere a Giob, come cosa che trscende le forze del nostro ingegno: Numquid nosti ordinem coeli? et pones rationem ejus in terra? Se Dio vuol’ andare alla scuola d’ Alfonso, questi gli si offerisce maestro d’ Astronomia; e se porterà il volume dell’ eterne sue Idee, gli cancellerà, gli aggiusterà a più chiaro disegno la forma de’ Cieli e l’ esemplare del Mondo.

Sola la pazzia potea difendere questo scemo da’ fulmini del Cielo, dove posuit os suum: e appunto Dio lo trattò da pazzo, usando con lui più compassione che sdegno; e per trargli sangue, come a pazzo, dalla vena di mezzo la fronte, gli levò la corona. Volle che intendesse, ch’ egli non avrebbe saputo aggiustare a forma migliore le rivoluzioni de’ Cieli; e però gli mandò una rivoluzione nel Regno, ch’ egli, con tutti i canoni e le regole de’ suoi calcoli, mai non seppe aggiustare: onde gli convenne, cacciato di casa dal figliulo, ed esule in terra straniera morire. [p. 68 modifica]


Uomini, come Alessarco, come Rennio, pazzi, benché forse meno conosciuti, non dubito io, che non ne sieno come i fior d’ ogni tempo, ancor’ oggi nel mondo. Chi volesse ritrarli con imagine espressiva di ciò che sono, potrebbe acconciamente dipingere un gran fumo che s’ alza, fino alle nuvole, e quanto più s’ alza, tanto più gonfia e allarga que’ suoi grandi volumi; indi aggiungervi il motto di S. Agostino: Quanto grandior, tanto vanior.

In udirli tal volta favellar di sé stessi per vanto, e d’ altrui per dispregio si conosce quanto starebbe lor bene il saluto, che Filippo Macedone rendè al superbo suo Medico, che gli scriveva: Menecrates Juppiter Philippo salutem. Fu la risposta: Philippus Menecrati sanitatem; che fu un farsi medico del suo medico, e inviargli per sanità del cervello una presa d’ elleboro in un saluto.

Che sotto la lor cappa e ‘l loro mantello stanno le alte e le più profonde Scienze; come sotto la corteccia delle conchiglie, e non altrove, le perle: Che i loro dettati sono le carte del navigar sicuro, senza di cui nelle Scienze s’ incontra o naufragio o pericolo: Che i loro insegnamenti sono all’ ultime mete del vero, come le stelle a’ confini dell’ universo, sì che

Altius his nihil est, hoec sunt corfinia mundi.

Gli altri sono le fonti, essi l’ Oceano; gli altri Talpe, essi Linci; gli altri Farfalle essi Aquile; gli altri Mosche, essi Aghironi.

O Medici, mediam contundite venam.

O se non questo, almeno si tenti d’ aprire la porta al vento, di che i miseri hanno sì gonfio il capo, e ciò sia facendo loro metter gli occhi nella luce d’ alcune chiarissime verità.

1. Ad ognuno le cose sue, per piccole che sieno, sembrano grandi. L’ amore di sé stesso e uno specchio concavo, che fa che un capello paja un tronco, e una Zanzara un Pegaso. Chi prende lui per giudice, stima le cose sue come quel Clito stimò una battaglia, navale, in cui [p. 69 modifica]

rotte e affondate tre sole, galee de’ Greci, come s’ egli avesse messo o Serse in fuga o il mare in ceppi, da indi, in poi si fece sempre chiamare col maestoso titolo di Nettuno.

La Luna, ond’ è egli, ch’ essendo di mole più piccola della Terra ben quaranta volte, sembri a giudicio dell’ occhio, uguale al Sole, che pur’ è maggior della Terra presso a cento quaranta volte? Senon perché la vicinanza, che la Luna ha alla Terra, la mostra tanto maggiore, quanto il Sole sembra minore, per esserle più lontano. Ma nulla v’ è che sia sì vicino a niuno, quanto sono le proprie sue cose a ciascheduno; quindi è, che sembrano oltre misura grandi, e maggiori di quelle d’ altrui, che, per essere fuori di noi, e perciò lontane da noi, si perdono in gran parte di vista.

2. I Grilli, paragonati alle Formiche chi dubita che non sieno Giganti? Chi misura quello che sa, ancorché pochissimo, con quello che sa chi non sa nulla, si crederà d’essere assolutamente ciò che non è senon a paragone dottissimo. Quei che andavano allo Studio d’ Atene, dicea Menedemo, v’ andavano Maestri, vi stavano Scolari, se ne partivano Ignoranti. Non solo perché quanto più s’ intende ciò che si sa, tanto più s’ intende ciò che non si sa, ma ancora perché trovavano, in quella fioritissima assemblea de’ più nobili ingegni del mondo, confronti al loro sapere tali che a lor paragone credevano di non saper nulla. Questa fu l’ arte, con che il savissimo Socrate dolcemente corresse la baldanza del suo Alcibiade, che ricco per paterno retaggio e per acquisto suo a gran copia di beni, ne andava sì altiero, come s’ egli fosse stato un Monarca del Mondo, non un privato d’ Atene. Gli fece specchio al conoscimento di sé stesso con una mappa del mondo; in cui trovata l’Europa, e in essa la Grecia, e nella Grecia a gran fatica Atene, Or qui (disse) mostrami la tua casa e i tuoi poderi, che non avendo, come tu vedi, luogo nel mondo, com’ esser può che ti mettano in capo spirità disprezzatori del mondo? Chi si crede d’ essere nel [p. 70 modifica]l’ ingegno e nel sapere una stella di prima grandezza, non si paragoni con le più minute, ma co’ Soli del mondo, e si vedrà in uno stesso e svanire la luce, e scemare l’ambizone.

3. Che uno, dov’è grande fra gli altri, voglia esser maggiore degli altri; dov’ è de’ primi, voglia esser solo; ciò non può soffrirsi in veruno più che già si tollerasse in quel superbo Pompeo, qui ut primum Rempublicam aggressus est, quemquam animo parem non tulit; et in quibus rebus primus esso debebat, solus esse cupiebat. Per eccellente, che voi vi siate ogni qualunque professione di Lettere non perciò siete voi mai una Fenice sola e unica al mondo, né un Primo Mobile, che, Senza ricevere imprcssione, o movimento da cielo superiore, dia il moto e ‘l giro alle Sfere minori. Chi v’ è che tanto sappia, che inanzi a lui gli altri non sappian nulla, sì che possa mettersi in bocca la superba parola del Principe Caifasso: Vos nescitis quidquam? La natura non fu sì sterile, che, formato voi, non avesse stampa simile per altrui: né sì povera, che, per far voi ricco d’ ingegno, lasciasse gli altri mendici. Perché dunque vi mirate voi attorno, e non vi parendo di veder nel mondo chi possa starvi a paragon di sapere, dite pazzamente a voi stesso quello, che Deucalione disse alla sua compagna: Nos duo turba sumus? Perché fate il vostro ingegno un Procuste, e volete che ognuno s’ aggiusti alla statura del vostro giudicio, come misura del retto; e perciò troncate i piedi a chi vi passa, e gli stirate a chi non v’ arriva? Ma quando ben voi foste d’ingegno e di sapere il primo fra i primi non è egli gran bassezza di cuore e viltà d’ animo l’ essere perciò panegirista di sé stesso e disprzzatore d’altrui? I torrenti, udite voi come fremon d’ intorno e cozzando co’ sassi romoreggian sì forte, che sembrano portare non un torrente d’acqua ma un mare? e pur molte volte non hanno fondo d’ un palmo, benché abbiano letto d’ un miglio. All’incontro i fiumi reali non men profondi che vasti, con quanta, dirolla, modestia si portano al mare? Non sode da essi un fischio, che, avvisi altrui quanto [p. 71 modifica]profondo abbiano il seno, ampie le rive, limpida l’ acqua, rapido il corso: si vanno mutoli e quieti. Chi pesca poco fondo (nell’ ingegno molte volte è vero ma nel giudicio sempre) è intollerabilmente strepitoso, e con le lodi sue e col dispregio altrui assorda il mondo con che, senza avvedersene, tanto si pruova più vile, quanto più s’aggrandisce; perché, secondo l’ Aforismo di Simmaco in magnos animos non cadit affectata jactatio.

Ma percioché proprio de’ superbi ingegni è usare non solo l’ alterezza in terra, ma anche la curiosità in cielo, nel prirno ingiusti con gli uomini a cui vogliono essere senza merito superiori; nel secondo empj con Dio, il cui essere, lo cui azioni bilanciano al peso e misurano al passo del corto intendere che hanno; eccovi sopra ciò la seguente considerazione.