Dell'unità della lingua e dei mezzi di diffonderla
Questo testo è completo, ma ancora da rileggere. |
RELAZIONE AL MINISTRO DELLA PUBBLICA ISTRUZIONE
proposta da alessandro manzoni
I sottoscritti onorati dall’Ill.mo signor Ministro della Pubblica Istruzione dell’incarico — di proporre tutti i provvedimenti e i modi coi quali si possa aiutare e rendere più universale in tutti gli ordini del popolo la notizia della buona lingua e della buona pronunzia, — trovano necessario di premettere alcune considerazioni alla proposta con cui si studieranno di rispondere all’importante invito.
Una nazione dove siano in vigore vari idiomi e la quale aspiri ad avere una lingua in comune, trova naturalmente in questa varietà un primo e potente ostacolo al suo intento.
In astratto, il modo di superare un tale ostacolo è ovvio ed evidente sostituire a que’ diversi mezzi di comunicazione d’idee un mezzo unico, il quale, sottentrando a fare nelle singole parti della nazione l’ufizio essenziale che fanno i particolari linguaggi, possa anche soddisfare il bisogno, non così essenziale, senza dubbio, ma rilevantissimo, d’intendersi gli uomini dell’intera nazione tra di loro, il più pienamente e uniformemente che sia possibile.
Ma in Italia, a ottenere un tale intento, s’incontra questa tanto singolare quanto dolorosa difficoltà, che il mezzo stesso è in questione; e mentre ci troviamo d’accordo nel voler questa lingua, quale poi essa sia, o possa, o deva essere, se ne disputa da cinquecento anni.
Una tale, si direbbe quasi, perpetuità di tentativi inutili potrebbe, a prima vista, far credere che la ricerca stessa sia da mettersi, una volta per sempre, nella gran classe di quelle che non hanno riuscita, perchè il loro intento è immaginario, e il mezzo che si cerca non vive che nei desidèri.
Lontani per sè da un tale scoraggimento, e animati dall’autorevole e patriottico invito del sig. Ministro, i sottoscritti non esitano a esprimere la loro persuasione, che il mezzo c’era, come c’è ancora; che il non avere esso potuta esercitare la sua naturale attività ed efficacia, è avvenuto per la mancanza di circostanze favorevoli, senza però, che una tale mancanza abbia potuto farlo dimenticare, nè renderlo affatto inoperoso; e che questa sua debole attività è quella che ha data occasione ai tanti sistemi che hanno potuto sovrapporglisi come le borraccine e i licheni a un albero che vegeti stentatamente.
Questo mezzo, indicato dalla cosa stessa, e messo in evidenza da splendidi esempi, è: che uno degl’idiomi, più o meno diversi, che vivono in una nazione, venga accettato da tutte le parti di essa per idioma o lingua comune, come piace di più; giacchè la differenza fra questi due termini, è puramente nominale, come resulterà da più d’un luogo di questo scritto, senza che ci sia bisogno d’una dimostrazione diretta.
Abbiamo detto che un tal mezzo è indicato dalla cosa stessa; e infatti per sostituire una cosa a molte, nulla si può immaginare di più adattato e vicino all’effetto, che il prendere una cosa della stessa natura di quelle, formata nello stesso modo, vivente d’una vita medesima, come sono appunto gl’idiomi tra di loro.
Abbiamo anche accennati degli splendidi esempi, e ne toccheremo due splendidissimi; e per il primo, quello della lingua latina, che basta nominare perchè corra alla mente quale e quanta potè essere, e in quante parti diffondersi. E ognuno sa che non era ricevuto per latino se non il linguaggio usato in Roma.
L’altro esempio è quello della Francia, dove, più o meno esplicitamente ma per un concorso di fatti, la lingua di Parigi è riconosciuta per la lingua della nazione: consuetudine principiata dall’assunzione di Ugo Capeto al trono, sulla fine del secolo decimo, e che era già consolidata e diffusa nel duodecimo, cioè un buon pezzo prima che, tra di noi, si principiasse a disputare sul caso nostro. Il nome poi di lingua francese non le venne dall’esser diventata la lingua della nazione, come si crede comunemente; ma l’aveva già come suo proprio e particolare, per significare l’idioma di quel tratto di territorio che si chiamava l’Ile de France, e più usualmente la France, nel quale si trovava Parigi, e del quale era duca quell’Ugo che divenne il capo della terza dinastia. Insieme con la lingua, diventò comune il nome, il quale, per un incontro fortuito venne a quadrare al novo e grandioso destino di essa.
E non c’è da maravigliarsi che una tal lingua, avendo una unità da opporre alle tante e diverse unità degli idiomi viventi nella nazione, abbia potuto uscir di casa, piantarsi e vivere al loro fianco, occupar sempre un po’ più del loro posto e, se non bandirli affatto, accostarsi ogni giorno più a un tal resultato. Non c’è da maravigliarsi che, cresciuta a poco a loco col crescere de’ bisogni e delle occasioni, e per il progresso delle cognizioni, quella lingua abbia potuto, e principalmente per mezzo dei grandi scrittori del secolo decimosettimo, uscire anche dai confini della nazione e, presentandosi per tutto la stessa, con quell’identità di locuzioni che costituisce una lingua, e non impedisce, anzi rende possibile la varietà degli stili, diventare ogni giorno più famigliare alle persone còlte delle altre nazioni, essere il linguaggio della diplomazia, e come il turcimanno comune dell’Europa. E non c’è nulla più da maravigliarsi che una lingua tale abbia potuto dar materia a un vocabolario come quello dell’Accademia Francese, il quale, e appunto perchè rappresenta intero, per quanto è possibile, un uso vivo, e per sapiente e feconda semplicità del suo metodo, che dà il modo di raccogliere tutte, per dir così, le forme speciali d’una lingua, potè registrare una copia di locuzioni, maggiore, e di molto, a quella che si possa trovare nel più abbondante de’ nostri vocabolari. E vuol dire, riguardo al primo, locuzioni segnate d’uno stesso marchio, cooperanti a un tutto, realmente conviventi; e riguardo al secondo, qualunque sia, una congerie di locuzioni prese di qua e di là, quale per un titolo, quale per un altro, non mirando a un tutto, ma a un molto: congerie, per conseguenza, dove, mentre abbonda il superfluo e l’incerto, manca spesso il necessario, che si troverebbe inevitabilmente cercandolo in una vera lingua. Nel termine generico poi di locuzioni, comprendiamo, non solo i vocaboli semplici, ma e le loro associazioni consacrate dall’uso, e quelle frasi, chiamate anche idiotismi, per lo più traslate, e spesso molto singolari, ma che dall’uso medesimo hanno acquistata tutta la pronta e sicura efficacia di significazioni proprie.
In verità, pensando a que’ due gran fatti delle lingue latina e francese, non si può a meno di non ridere della taccia di municipalismo che è stata data e si vuol mantenere a chi pensa che l’accettazione e l’acquisto dell’idioma fiorentino sia il mezzo che possa dare di fatto all’Italia una lingua comune. Senza il municipalismo di Roma e di Parigi non ci sarebbe stata, nè lingua latina, nè lingua francese.
Si dice, e con ragione, che una gran parte de’ successi mirabili di quelle lingue fu l’effetto delle relazioni, diremo così, forzate con Roma e con Parigi, de’ paesi di cui quelle città divennero, di mano in mano, le capitali. E se ne inferisce, ma contro ragione, che tali esempi non concludano per il nostro caso. Non si riflette, argomentando così, che se quelli furono aiuti per combattere que’ tanti idiomi, la condizione essenziale perchè potessero operare, era d’aver la cosa che dasse il modo di far di meno di quelli, cioè un linguaggio venuto, come loro, in una società vivente e riunita, dove una totalità e continuità di relazioni tra gli uomini produce necessariamente un uso uniforme di lingua. Ora, quella condizione è la stessa nel nostro caso, come in quelli; e sarebbe una cosa troppo strana, che la mancanza di mezzi sussidiari diventasse una ragione per poter far di meno d’un mezzo essenziale.
Riconosciuta poi che fosse la necessità d’un tal mezzo, la scelta d’un idioma che possa servire al caso nostro, non potrebbe esser dubbia; anzi è fatta. Perchè è appunto un fatto notabilissimo questo: che, non c’essendo stata nell’Italia moderna una capitale che abbia potuto forzare in certo modo le diverse province a adottare il suo idioma, pure il toscano, per la virtù d’alcuni scritti famosi al loro primo apparire, per la felice esposizione di concetti più comuni, che regna in molti altri, e resa facile da alcune qualità dell’idioma medesimo, che non importa di specificar qui, abbia potuto essere accettato e proclamato per lingua comune dell’Italia, dare generalmente il suo nome (così avesse potuto dar la cosa) agli scritti di tutte le parti d’Italia, alle prediche, ai discorsi pubblici, e anche privati, che non fossero espressi in nessun altro de’ diversi idiomi d’Italia. E la ragione per cui questa denominazione sia stata accettata così facilmente, è che esprime un fatto chiaro, uno di quelli la di cui virtù è nota a chi si sia. Ognuno infatti, che non sia preoccupato da opinioni arbitrarie e sistematiche, intende subito che per poter sostituire un linguaggio novo a quello d’un paese, bisogna prendere il linguaggio d’un altro paese.
S’aggiunga un altro fatto importante anch’esso, cioè che, o tutti o quasi tutti quelli che negano al toscano la ragione di essere la lingua comune d’Italia, gli concedono pure qualcosa di speciale, una certa qual preferenza, un certo qual privilegio sopra gli altri idiomi d’Italia. Con che, per verità, danno segno di non avere una chiara e logica nozione d’una lingua; la quale non è se non è un tutto; e a volerla prendere un po’ di qua e un podi là, è il modo d’immaginarsi perpetuamente di farla, senza averla fatta mai. Per chi ragiona, è concedere il tutto. È da osservarsi, del rimanente, che la denominazione di lingua toscana non corrisponde esattamente alla cosa che si vuole e si deve volere, cioè a una lingua una; mentre il parlare toscano è composto d’idiomi pochissimo dissimili bensì tra di loro, ma dissimili, e quindi non formanti una unità. Ma l’improprietà del vocabolo non potrà cagionare equivoci, quando si sia, in fatto, d’accordo nel concetto; in quella maniera che le denominazioni di latino, di francese, di castigliano, quantunque derivate, non da delle città, ma dai territòri, non hanno impedito che, per latino s’intendesse il linguaggio di Roma, come, per francese e per castigliano, s’intendono quelli di Parigi e di Madrid.
Uno poi de’ mezzi più efficaci e d’un effetto più generale, particolarmente nelle nostre circostanze, per propagare una lingua, è, come tutti sanno, un vocabolario. E, secondo i princìpi e i fatti qui esposti, il vocabolario a proposito per l’Italia non potrebbe esser altro che quello del linguaggio fiorentino vivente.
Ma qui (ed è la cagione che ci move a toccar questo punto anticipatamente, e a parte degli altri provvedimenti), qui insorgeranno senza dubbio più clamorose, più risolute, più incalzanti le obiezioni che le cose dette fin qui avranno già potute suscitare. Ne accenneremo quattro, che crediamo le principali e le più ripetute e confidiamo che un breve esame di esse potrà servire a mettere in più chiara luce l’assunto.
La prima è che, dovendo un vocabolario essere come il rappresentante delle cognizioni, delle opinioni, dei concetti d’ogni genere, d’una intera nazione, deve essere formato sulla lingua della nazione, e non sull’idioma di una città.
A questo rispondiamo che in Firenze si trovano tutte le cognizioni, le opinioni, i concetti di ogni genere che ci possano essere in Italia; e ciò, non già per alcuna prerogativa di quella città, ma come ci sono in Napoli, in Torino, in Venezia, in Genova, in Palermo, in Milano, in Bologna, e anche in tante altre città meno popolose, essendoci in tutte, a un dipresso, un medesimo grado di coltura, una conformità de’ bisogni, delle vicende, e delle circostanze principali della vita, insomma d’ogni materia di discorso. E si potrebbe scommettere, se ci potesse anche essere il giudice d’una tale scommessa, che tutto ciò che è stato detto in un anno, di pubblico e di privato, di politico e di domestico, d’erudito e di comune, di scientifico e di pratico, di grave e di faceto, in una di queste città, è stato detto in tutte, meno, stiamo per dire, i nomi propri delle persone. Si dice tutti le stesse cose: solo le diciamo in modi diversi. Il dir tutti le stesse cose attesta la possibilità di sostituire un idioma a tutti gli altri; il dirle in modi diversi attesta il bisogno che abbiamo di questo mezzo.
L’obiezione che esaminiamo nega implicitamente questo bisogno; ma lo fa per una supposizione affatto gratuita, cioè che ci sia in Italia una lingua comune di fatto, e che non rimanga altro da fare, che di raccoglierla e metterla in un vocabolario.
Sul valore di questa supposizione basteranno qui pochi cenni.
Che ci sia una quantità indefinita di locuzioni comuni a tutta l’Italia, o perchè si trovino primitivamente ne’ suoi vari idiomi, o per essere venute comunque e donde che sia, è un fatto che a nessuno potrebbe neppure venir in mente di negare. Ma nessuno vorrà nemmeno affermare che una quantità qualunque di locuzioni basti a costituire una lingua. Se questo fosse, non avrebbe alcun senso ragionevole il titolo di lingua morta, che si dà, per esempio, alla latina. Ma un tal senso lo ha, e importa, per l’appunto, una quantità bensì di locuzioni, ma una quantità non adequata a una intera comunicazione di pensieri tra una società umana che è ciò che l’universale degli uomini intende per lingua, per quanti possano essere, nel gran numero di esse, i nomi con cui s’esprime questo concetto.
Ora, sebbene quelle due quantità di locuzioni differiscano di molto, riguardo all’origine, sono uguali nel resultato, cioè nel non esser lingue.
Dell’insufficienza a ciò delle locuzioni latine rimaste, la cagione è evidente per sè: una parte non può essere un tutto. La cagione d’una uguale insufficienza delle locuzioni comuni a tutta l’Italia, è facile a trovarsi. Come mai dalle relazioni che gl’Italiani delle diverse province possano aver avute tra di loro sarebbe potuta resultare quella totalità di segni che, in una società riunita, resulta necessariamente da relazioni giornaliere, continue, inevitabili, e d’ogni genere? Chiunque poi, e a qualunque provincia d’Italia appartenga, desiderasse aver di ciò qualche prova di fatto, non ha che a frugare nella sua mente, e troverà senza fatica un’altra quantità da opporre a quella che abbiamo riconosciuta dianzi, cioè una quantità di cose che nomina, di concetti che esprime abitualmente, e con de’ boni perchè, sia in Veneziano, sia in Napoletano, sia in Bergamasco, sia in Parmigiano, sia in Sardo, e via discorrendo; e la locuzione corrispondente in una lingua italiana di fatto la cercherà invano. Nascendo il bisogno, ne uscirà certamente in qualche modo: o per mezzo di un gallicismo, o d’una perifrasi, o col definire invece di nominare, o adoprando un termine di senso affine, o generico, dove il suo idioma glie ne dava uno proprio e specifico. Ma sono queste le condizioni d’una lingua ?
Dello stesso valore è la supposizione che una lingua italiana s’abbia a trovar negli scritti.
Non vogliamo negare, neppure in questo caso, che anche lì ci sia una quantità di locuzioni identiche. Ma per aver ragione di negare che una tal quantità costituisca un tutto, e un tutto omogeneo, non abbiamo neppur bisogno di ficcar l’occhio in quel guazzabuglio di significati che, a cagione de’ diversi pareri, si comprendono, o piuttosto litigano tra di loro in quella parola scritti: tutti gli scritti, o una tale o una tal’altra parte scelta; scritti d’ogni età, o d’un secolo o di due; di tutta l’Italia, o di una parte sola; scritti che da persone tutt’altro che ignoranti, sono vantati e proposti per modelli di bellissima lingua, e da altre persone tutt’altro che ignoranti sono chiamati caricature. E questo, con dell’altro, è ciò che a molti. pare d’aver ridotto a un’unità col dire la lingua degli scrittori, ovvero la lingua scritta. Ma per il nostro assunto basterà, anche qui, una domanda: come mai una lingua (che è quanto dire una lingua intera) si potrà ritrovare in quel tanto o quanto che ad alcuni e molti e moltissimi, se si vuole, ma pur sempre alcuni a fronte d’una intera società, sia venuto accidentalmente in taglio di mettere in carta?
La cagione originaria di tutte quelle e d’altre simili opinioni è stata l’aver principiato dal cercare quale fosse la lingua italiana, senza aver cercato prima cosa sia una lingua, per veder poi se ce ne fosse una italiana, adequata al concetto logico di questo vocabolo.
Una seconda obiezione che ci troviamo a fronte, è: che ciò che si vuole per l’Italia è una lingua; e il linguaggio di Firenze non è che un dialetto.
Questa antitesi non è altro che un cozzo di parole male intese, e che, in questo caso, non corrispondono ad alcun fatto reale.
Ci possono essere bensì, e ci sono, de’ dialetti, nel senso di parlari che si trovino in opposizione e in concorrenza con una lingua. E ciò accade presso quelle nazioni dove una lingua positiva riconosciuta unanimemente, e diventata comune a una parte considerabile, e particolarmente alla parte più colta delle diverse province, sia riuscita a restringere in un’altra parte di esse più rozza; e che va scemando ogni giorno, l’uso di quelli che, prima dell’introduzione d’una tal lingua, erano gli unici linguaggi delle diverse province. A questi sta bene il nome di dialetti. Ma tra di noi, invece, i vecchi e vari idiomi sono in pieno vigore, e servono abitualmente a ogni classe di persone, per non esserci in effettiva concorrenza con essi una lingua atta a combatterli col mezzo unicamente efficace, che è quello di prestare il servizio che essi prestano. E a quella che lo potrebbe si oppone a sproposito il nome di dialetto, per la sola ragione che non è in fatto la lingua della nazione: cosa tanto vera quanto trista, ma che non ha punto che fare con l’essenza d’una lingua. Nel 987, che fu l’anno in cui Ugo Capeto, duca di Francia e conte di Parigi, fu incoronato re de’ Franchi, il francese non era certamente la lingua d’una nazione: lo potè divenire, perchè, entro que’ primi confini, e con quella copia e qualità di materiali, che dava il secolo decimo, era una lingua viva e vera.
Fino a che una lingua d’egual natura non sia riconosciuta anche in Italia, la parola dialetto non ci potrà avere un’applicazione logica, perchè le manca il relativo.
Altra obiezione, l’enormità del pretendere che una città abbia a imporre una legge a un’intera nazione.
Imporre una legge? come se un vocabolario avesse a essere una specie di codice penale con prescrizioni, divieti e sanzioni. Si tratta di somministrare un mezzo, e non d’imporre una legge. Essendo le lingue e imperfette e aumentabili di loro natura, nulla vieta, anzi tutto consiglia di prendere da dove torni meglio o anche di formare de’ novi vocaboli richiesti da novi bisogni, e che l’uso non somministri. Ma per aggiungere utilmente, è necessario conoscer la cosa a cui si vuole aggiungere; e poter quindi discernere ciò che le manchi in effetto. Altrimenti può accadere (e se accade!) che uno, non trovando un termine così detto italiano, di cui creda, e anche con ragione, d’aver bisogno, e non osando, anche qui con ragione, servirsi di quello che gli dà il suo idioma, corra, o a prenderlo da una lingua straniera, o a coniarne uno, mentre l’uso fiorentino glielo potrebbe dare benissimo, se ne avessimo il vocabolario. Così si accresce bensì quel guazzabuglio che s’è detto sopra, ma non s’aggiunge a una lingua più di quello che, col buttare una pietra in un mucchio di pietre, s’aiuti ad alzare una fabbrica. Invece (ciò che può parere strano a chi si fermi alla prima apparenza) la cognizione e l’accettazione di quell’uso dove altri sogna servitù, servirebbe a dare una guida necessaria alla libertà d’aggiungere sensatamente e utilmente.
L’ultima delle obiezioni che abbiamo creduto di dover esaminare, è che un vocabolario compilato sul solo uso vivente d’una lingua, non adempie l’altro ufizio, di somministrare il mezzo d’intendere gli scrittori di tutti i tempi.
L’idea d’accoppiar questi ufizi è venuta dal confondere due diversi intenti, e dal prendere ad esempio le lingue morte.
Riguardo a queste, il dar modo d’intendere gli scrittori è, non un accessorio più o meno importante, ma la cosa essenziale, per la ragione semplicissima, che è l’unico mezzo di dare una cognizione di tali lingue. L’intento ben diverso del vocabolario d’una lingua viva (che è, o deve esser quello di rappresentarne, per quanto è possibile, l’uso attuale) ha una ragione sua propria, e una materia corrispondente, che basta per un lavoro separato, anzi lo richiede tale, non c’essendo un perchè d’unire e d’intralciare materialmente delle cose che, per ragione, sono distinte. Un vocabolario destinato a propagare in una nazione intera l’uso d’una lingua, deve servire a un numero molto maggiore di persone, che non siano quelle che mirino all’altro intento. A questo, del rimanente, potrà provvedere un vocabolario apposito; il quale avrà inoltre il vantaggio di render più note e più facilmente ritrovabili, delle locuzioni, che abbandonate, forse a torto, dall’uso, possano con l’essere adoprate a proposito da qualcheduno, venir proposte di nuovo all’uso medesimo, e servire ad arricchirlo.
Perchè poi, come osservò un uomo d’ingegno, alle imprese che hanno uno scopo ragionevole e importante, concorrono, come da sè, de’ vantaggi accessori, il vocabolario d’un uso vivente di lingua, è anche, di gran lunga, il più facile a compilarsi. N’abbiamo una prova ne’ molti vocabolari di diversi idiomi d’Italia, composti con la bona intenzione di metterci a riscontro una lingua italiana, e quantunque composti ognuno da un uomo solo, alcuni notabilmente copiosi, come il veneziano del Boerio, il milanese del Cherubini, il siciliano del Pasqualino, il sardo del Porru, il bolognese del Ferrari, il romagnolo del Morri. E, per quanto noi sappiamo, non s’è sentito dire, che que’ lavori, per la parte che riguarda i rispettivi idiomi, abbiano incorsa la critica di quelli che li parlano. La ragione di questa bona riuscita è, che ognuno di quegli autori non aveva a fare altro che raccogliere dalla sua memoria que’ vocaboli che gli erano serviti in tutte le occorrenze della vita a esprimere, con un effetto quasi sempre sicuro, ogni suo concetto: non aveva, direm quasi, che a sciogliere analiticamente una scienza già posseduta. Nessuno, è vero, possiede l’uso intero di una lingua, ma ognuno che non sia, nè rozzo, nè ottuso ne possiede una gran parte, e la più universale, cioè la più importante per la compilazione d’un vocabolario. È poi evidente che una tale facilità e sicurezza di trovar locuzioni d’una lingua viva, e di trovarne in tanta copia, da accostarsi (s’intende per quanto è possibile) all’intera raccolta di esse, deva crescere grandemente quando la ricerca sia fatta in comune da più persone. Si potrebbe quasi asserire che, in una compagnia di concittadini riuniti in un tale lavoro, sarebbe scarsissimo il numero delle locuzioni dimenticate, come rarissimo il caso che per una locuzione proposta, il voto o del sì o del no, non fosse unanime.
La menzione che s’è fatta de’ vocabolari de’ diversi idiomi d’Italia, vocabolari, de’ quali come d’un mezzo di prima importanza per la diffusione della lingua, avremo a parlare più avanti, ci suggerisce intanto un’osservazione, indiretta bensì, ma non fuori di proposito. Ed è, che, tra tanti autori di vocabolari di tal genere, non si sia trovato un fiorentino, il quale, avendo letto in tanti libri di tutte le parti d’Italia, che il suo linguaggio è un dialetto come gli altri, meno greggio, se si vuole, ma sempre un dialetto, sia stato mosso dall’esempio di quegli autori a compilare un vocabolario fiorentino per metterci a fronte la vera lingua italiana, e fare anche lui un così gran benefizio ai suoi concittadini. Ma quest’uomo non s’è trovato, perchè di certe cose eteroclite si possono bensì piantar le premesse, e su di queste ragionare alla distesa; ma le conseguenze farebbero tanto a cozzi coi fatti, che non viene neppure in mente di metterle in pratica. Sarebbe proprio stato il caso del cane della favola, che avendo la carne in bocca, corre dietro a quella che gli par di vedere nell’acqua. Si può esser certi che anche a coloro che hanno più battuto e ribattuto quel chiodo del — dialetto di Firenze — sarebbe parsa un’idea dell’altro mondo.
Ma qui, sull’ultimo s’affaccia un dubbio estraneo al merito della cosa, ma che, riguardo al successo, può parere molto grave.
Per quanto il vocabolario proposto potesse esser adattato all’intento, troverebbe poi l’Italia disposta ad accettarlo? O non potrebbero, da una parte, le opinioni favorevoli ai diversi sistemi, ma concordi nel rifiutarlo, e dall’altra, la svogliatezza del pubblico, lasciarlo andare a terra e rimanerci?
Tre cagioni ci danno anima a sperare il contrario: l’effetto immediato e, diremo così, iniziale che produrrebbe per sè medesimo, al suo apparire, un vocabolario così fatto; l’aiuto efficacissimo che riceverebbe da de’ vocabolari, formati su di esso, de’ vari idiomi d’Italia; gli aiuti che il Governo può dare all’impresa, e de’ quali passeremo a sottomettere al giudizio del signor Ministro quelli che ci paiono più praticabili, dopo avere addotto qualche argomento intorno ai due altri capi accennati dianzi.
Riguardo al primo, tra l’effetto che può produrre il concetto astratto d’un vocabolario (come di qualunque altro istrumento, sia materiale, sia morale) e l’effetto del vederlo in una forma reale e concreta, corre un grandissimo divario.
Il concetto ideale, ravvolto, in certa maniera, nel suo nome, non presentando nulla di distinto, non accennando alcun modo d’attuazione, non offrendo alcun saggio sensibile della sua attitudine, e della sua opportunità, e obbligando quindi le menti a cercar tutto questo da sè, non può evidentemente diventare oggetto della preoccupazione, non diremo d’un pubblico intero, ma nemmeno d’una parte notabile d’un pubblico. Invece, un vocabolario positivo, col porgere i mezzi opportuni, fa avvertire il bisogno che se n’aveva, e rende manifesta la sua virtù nell’esercitarla. E sarebbe fare ingiuria al retto senso degl’Italiani il mettere in dubbio, che, all’apparire d’un mezzo pratico d’intendersi tra tutti loro, come s’intendono in frazioni separate, non ne sia scossa quella svogliatezza che è nata per l’appunto in gran parte dal non veder nulla d’attuale (e del resto, nemmen d’attuabile) in tutto il discutere che s’è fatto intorno alla lingua italiana.
Abbiamo accennato in secondo luogo, che i vocabolari degli altri idiomi sarebbero un mezzo efficacissimo per diffondere la lingua del vocabolario destinato a diventar comune. Avremmo quasi potuto dire: un mezzo indispensabile; giacchè un vocabolario non comparativo, può bensì insegnare se tali e tali vocaboli appartengano, o no, a una data lingua, può dare di essi una più precisa intelligenza con accurate definizioni, può indicare le loro varie attitudini e i loro accompagnamenti, con esempi cavati dall’uso generale e vivente (com’è nel vocabolario, francese citato sopra); ma questi servizi non li può prestare se non a chi conosca già materialmente i vocaboli intorno ai quali gli occorrano quelle altre cognizioni. Ciò che occorre a noi, in una gran parte de’ casi, è d’apprendere i vocaboli medesimi; e a ciò servono, come naturalissimi interpreti, i vocabolari degli altri idiomi. Sono il noto che può condurre all’ignoto desiderato, o certamente desiderabilissimo.
Noi siamo ben lontani dall’intenzione di svilire i lavori già fatti per un tal fine, e alcuni condotti con lunghe e diligenti ricerche. Ma importa all’argomento il notare la scarsa loro efficacia, e indicarne la cagione. È la solita: il non aver avuto una unità da opporre a dell’altre unità. Non l’avevano, nè tutti insieme, nè ognuno da sè, adoprando ognuno più critèri per la scelta de’ vocaboli da contrapporsi a quelli del suo idioma, prendendone, e da altri vocabolari, e da scritti di varie sorti, mettendo alle volte più locuzioni, più o meno probabili, a fronte di una locuzione certa del loro idioma; alle volte, locuzioni antiquate e morte, a fronte di locuzioni piene di vita, e fino qualche locuzione inventata da uno scrittore per suo uso, e che si trova in un libro solo, e in nessuna bocca; pescando insomma in quel guazzabuglio che s’è detto sopra.
Non essendo però inclinati a negar nulla di vero, riconosciamo senza difficoltà che, anche in que’ vocabolari, si trova una parte d’identico e di certo, ma una parte solamente e confusa in una mescolanza di cose eterogenee, mentre ciò che occorre è un tutto distinto.
Potranno poi que’ vocabolari tornar utili col risparmiare agli autori de’ novi una parte del lavoro di raccogliere i materiali de’ rispettivi idiomi. Diciamo una parte, perchè un vocabolario fiorentino, quale potrà essere se venga preso dall’uso intero di quella lingua, potrà suggerire, anche in ciò che riguarda gli altri idiomi, non poche locuzioni, o dimenticate dai primi autori, o omesse da loro, per non sapere dove trovarci un equivalente che potesse esser chiamato italiano per un titolo qualunque.
Crediamo che non sia per esser fuor di proposito l’accennare un’utilità accessoria, che verrebbe da sè, e come per giunta, da quella rassegna generale degli idiomi italiani. E sarebbe quella di rivelare, in molte parti di questi, uniformità inaspettata, e tra di loro e col fiorentino. Diciamo inaspettata, perchè si trova per l’appunto in locuzioni, che la maggior parte degl’Italiani, per non dire ognuno, crede usate esclusivamente nel suo proprio idioma, e tali da parere stranissime a tutti gli altri Italiani che le sentissero, o peggio, le vedessero stampate. Ora, trovandole ugualmente, e nel vocabolario fiorentino, e negli altri, ci accorgeremmo d’avere una comunione di linguaggio in quella parte dove ci credevamo più stranieri gli uni agli altri; ci troveremmo più vicini alla unità senza aver avuto bisogno di moverci; sarebbe un acquisto senza fatica, come quello di chi, credendo d’avere in un ripostiglio delle monete false, andato poi a esaminarle, le trovasse di bona lega, e tali da esser ricevute da ognuno senza difficoltà.
Già alcune di queste locuzioni si potevano osservare nelle opere di vari scrittori toscani; ma tali esempi, caduti sotto gli occhi d’un numero di lettori scarso in paragone d’un pubblico, non potevano produrre alcun effetto notabile. Un solo scrittore, l’illustre e pianto Giusti, ha potuto, per la sua grandissima popolarità in tutt’Italia, produrre degli esempi fecondi, anche in questo particolare, come riguardo all’effetto generale di propagare utili e necessarie locuzioni. In grazia sua ne corrono ora per gli scritti di tutta l’Italia, di quelle che, prima di lui, ogni scrittore avrebbe schivate studiosamente, credendole ciarpe del suo particolare idioma. La maggior parte, e dell’uno e dell’altro effetto, è dovuta certamente all’ingegno di quell’autore, ma sarebbe inutile il negare che un’altra parte essenziale ce l’abbia avuta l’esser lui toscano. Perchè, o volere o non volere, e malgrado tutte le contradizioni, questa fede nella lingua toscana è pur sempre viva in Italia; e se non è forte abbastanza per spingerci a cercarla, basta però per darci e amore e coraggio a prenderla quando ci si presenta da sè. Non ci pare quindi che sia un’illusione il vedere in quel fatto un saggio e un pronostico dell’effetto tanto più vasto che produrrebbe l’esser tutta (s’intende sempre per quanto si può) quella lingua messa contemporaneamente davanti gli occhi del pubblico d’ogni parte d’Italia.
I limiti imposti naturalmente al genere del lavoro che c’è commesso, non ci permettono d’aggiungere le molte altre considerazioni, che potrebbero servire a una più ampia dimostrazione dell’assunto. Confidiamo nondimeno che, in grazia della sua evidenza, le qui addotte possano riuscire bastanti a dar ragione del motivo su di cui sono fondati i provvedimenti che siamo per proporre, e dell’idoneità de’ quali sarà giudice il signor Ministro.
Ci corre però prima l’obbligo di tributargli la singolare e ben meritata lode, dell’aver proposta con pubblica autorità, e insieme avviata per la vera strada, una questione di tanta importanza; giacchè, dopo l’unità di governo, d’armi e di leggi, l’unità della lingua è quella che serve il più a rendere stretta, sensibile e profittevole l’unità d’una nazione. Enunciando lo scopo d’aiutare e rendere più universale in tutti gli ordini del popolo la notizia della buona lingua, il signor Ministro ha sostituita la questione sociale e nazionale a un fascio di questioni letterarie, e messe le opinioni sistematiche al partito, o di mostrar d’esser atte a dare il mezzo conveniente a un tale scopo, o di sostenere che un tale scopo non sia quello a cui si deve mirare: cosa che, crediamo, nessuna di esse si sentirà d’affermare, quantunque tutte la sottintendano, proponendo scopi diversi: qualcosa di bello, di scelto, di nobile, d’autorevole, di venerando; tutt’altro insomma che una lingua.
Possa l’utilissima impresa essere secondata, e da quelli che possiedono la lingua a proposito, e da quelli a cui deve premere d’acquistarla. Possa questo Eppur la c’è, che proferito semplicemente da noi, si perderebbe facilmente, come un suono vòto nell’aria, diventare un altro Eppur la si muove; e l’Italia uscire da uno stato di cose che la rende, in fatto di lingua, un’eccezione, tra i popoli còlti, e non ha altra raccomandazione che cinque secoli di dispute infruttuose.
Alessandro Manzoni.