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dell’unità della lingua | 601 |
marchio, cooperanti a un tutto, realmente conviventi; e riguardo al secondo, qualunque sia, una congerie di locuzioni prese di qua e di là, quale per un titolo, quale per un altro, non mirando a un tutto, ma a un molto: congerie, per conseguenza, dove, mentre abbonda il superfluo e l’incerto, manca spesso il necessario, che si troverebbe inevitabilmente cercandolo in una vera lingua. Nel termine generico poi di locuzioni, comprendiamo, non solo i vocaboli semplici, ma e le loro associazioni consacrate dall’uso, e quelle frasi, chiamate anche idiotismi, per lo più traslate, e spesso molto singolari, ma che dall’uso medesimo hanno acquistata tutta la pronta e sicura efficacia di significazioni proprie.
In verità, pensando a que’ due gran fatti delle lingue latina e francese, non si può a meno di non ridere della taccia di municipalismo che è stata data e si vuol mantenere a chi pensa che l’accettazione e l’acquisto dell’idioma fiorentino sia il mezzo che possa dare di fatto all’Italia una lingua comune. Senza il municipalismo di Roma e di Parigi non ci sarebbe stata, nè lingua latina, nè lingua francese.
Si dice, e con ragione, che una gran parte de’ successi mirabili di quelle lingue fu l’effetto delle relazioni, diremo così, forzate con Roma e con Parigi, de’ paesi di cui quelle città divennero, di mano in mano, le capitali. E se ne inferisce, ma contro ragione, che tali esempi non concludano per il nostro caso. Non si riflette, argomentando così, che se quelli furono aiuti per combattere que’ tanti idiomi, la condizione essenziale perchè potessero operare, era d’aver la cosa che dasse il modo di far di meno di quelli, cioè un linguaggio venuto, come loro, in una società vivente e riunita, dove una totalità e continuità di relazioni tra gli uomini produce necessariamente un uso uniforme di lingua. Ora, quella condizione è la stessa nel nostro caso, come in quelli; e sarebbe una cosa troppo strana, che la mancanza di mezzi sussidiari diventasse una ragione per poter far di meno d’un mezzo essenziale.
Riconosciuta poi che fosse la necessità d’un tal mezzo, la scelta d’un idioma che possa servire al caso nostro, non potrebbe esser dubbia; anzi è fatta. Perchè è appunto un fatto notabilissimo questo: che, non c’essendo stata nell’Italia moderna una capitale che abbia potuto forzare in certo modo le diverse province a adottare il suo idioma, pure il toscano, per la virtù d’alcuni scritti famosi al loro primo apparire, per la felice esposizione di concetti più comuni, che regna in molti altri, e resa facile da alcune qualità dell’idioma medesimo, che non importa di specificar qui, abbia potuto essere accettato e proclamato per lingua comune dell’Italia, dare generalmente il suo nome (così avesse potuto dar la cosa) agli scritti di tutte le parti d’Italia, alle prediche, ai discorsi pubblici, e anche privati, che non fossero espressi in nessun altro de’ diversi idiomi d’Italia. E la ragione per cui questa denominazione sia stata accettata così facilmente, è che esprime un fatto chiaro, uno di quelli la di cui virtù è nota a chi si sia. Ognuno infatti, che non sia preoccupato da opinioni arbitrarie e sistematiche, intende subito che per poter sostituire un linguaggio novo a quello d’un paese, bisogna prendere il linguaggio d’un altro paese.
S’aggiunga un altro fatto importante anch’esso, cioè che, o tutti o quasi tutti quelli che negano al toscano la ragione di essere la lingua comune d’Italia, gli concedono pure qualcosa di speciale, una certa qual preferenza, un certo qual privilegio sopra gli altri idiomi d’Italia. Con che, per verità, danno segno di non avere una chiara e logica nozione d’una lingua; la quale non è se non è un tutto; e a volerla prendere un po’ di qua e un podi là, è il modo d’immaginarsi perpetuamente di farla, senza averla fatta mai. Per chi ragiona, è concedere il tutto.