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604 | dell’unità della lingua |
che, prima dell’introduzione d’una tal lingua, erano gli unici linguaggi delle diverse province. A questi sta bene il nome di dialetti. Ma tra di noi, invece, i vecchi e vari idiomi sono in pieno vigore, e servono abitualmente a ogni classe di persone, per non esserci in effettiva concorrenza con essi una lingua atta a combatterli col mezzo unicamente efficace, che è quello di prestare il servizio che essi prestano. E a quella che lo potrebbe si oppone a sproposito il nome di dialetto, per la sola ragione che non è in fatto la lingua della nazione: cosa tanto vera quanto trista, ma che non ha punto che fare con l’essenza d’una lingua. Nel 987, che fu l’anno in cui Ugo Capeto, duca di Francia e conte di Parigi, fu incoronato re de’ Franchi, il francese non era certamente la lingua d’una nazione: lo potè divenire, perchè, entro que’ primi confini, e con quella copia e qualità di materiali, che dava il secolo decimo, era una lingua viva e vera.
Fino a che una lingua d’egual natura non sia riconosciuta anche in Italia, la parola dialetto non ci potrà avere un’applicazione logica, perchè le manca il relativo.
Altra obiezione, l’enormità del pretendere che una città abbia a imporre una legge a un’intera nazione.
Imporre una legge? come se un vocabolario avesse a essere una specie di codice penale con prescrizioni, divieti e sanzioni. Si tratta di somministrare un mezzo, e non d’imporre una legge. Essendo le lingue e imperfette e aumentabili di loro natura, nulla vieta, anzi tutto consiglia di prendere da dove torni meglio o anche di formare de’ novi vocaboli richiesti da novi bisogni, e che l’uso non somministri. Ma per aggiungere utilmente, è necessario conoscer la cosa a cui si vuole aggiungere; e poter quindi discernere ciò che le manchi in effetto. Altrimenti può accadere (e se accade!) che uno, non trovando un termine così detto italiano, di cui creda, e anche con ragione, d’aver bisogno, e non osando, anche qui con ragione, servirsi di quello che gli dà il suo idioma, corra, o a prenderlo da una lingua straniera, o a coniarne uno, mentre l’uso fiorentino glielo potrebbe dare benissimo, se ne avessimo il vocabolario. Così si accresce bensì quel guazzabuglio che s’è detto sopra, ma non s’aggiunge a una lingua più di quello che, col buttare una pietra in un mucchio di pietre, s’aiuti ad alzare una fabbrica. Invece (ciò che può parere strano a chi si fermi alla prima apparenza) la cognizione e l’accettazione di quell’uso dove altri sogna servitù, servirebbe a dare una guida necessaria alla libertà d’aggiungere sensatamente e utilmente.
L’ultima delle obiezioni che abbiamo creduto di dover esaminare, è che un vocabolario compilato sul solo uso vivente d’una lingua, non adempie l’altro ufizio, di somministrare il mezzo d’intendere gli scrittori di tutti i tempi.
L’idea d’accoppiar questi ufizi è venuta dal confondere due diversi intenti, e dal prendere ad esempio le lingue morte.
Riguardo a queste, il dar modo d’intendere gli scrittori è, non un accessorio più o meno importante, ma la cosa essenziale, per la ragione semplicissima, che è l’unico mezzo di dare una cognizione di tali lingue. L’intento ben diverso del vocabolario d’una lingua viva (che è, o deve esser quello di rappresentarne, per quanto è possibile, l’uso attuale) ha una ragione sua propria, e una materia corrispondente, che basta per un lavoro separato, anzi lo richiede tale, non c’essendo un perchè d’unire e d’intralciare materialmente delle cose che, per ragione, sono distinte. Un vocabolario destinato a propagare in una nazione intera l’uso d’una lingua, deve servire a un numero molto maggiore di persone, che non siano quelle che mirino all’altro intento. A questo, del rimanente, potrà