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602 | dell’unità della lingua |
È da osservarsi, del rimanente, che la denominazione di lingua toscana non corrisponde esattamente alla cosa che si vuole e si deve volere, cioè a una lingua una; mentre il parlare toscano è composto d’idiomi pochissimo dissimili bensì tra di loro, ma dissimili, e quindi non formanti una unità. Ma l’improprietà del vocabolo non potrà cagionare equivoci, quando si sia, in fatto, d’accordo nel concetto; in quella maniera che le denominazioni di latino, di francese, di castigliano, quantunque derivate, non da delle città, ma dai territòri, non hanno impedito che, per latino s’intendesse il linguaggio di Roma, come, per francese e per castigliano, s’intendono quelli di Parigi e di Madrid.
Uno poi de’ mezzi più efficaci e d’un effetto più generale, particolarmente nelle nostre circostanze, per propagare una lingua, è, come tutti sanno, un vocabolario. E, secondo i princìpi e i fatti qui esposti, il vocabolario a proposito per l’Italia non potrebbe esser altro che quello del linguaggio fiorentino vivente.
Ma qui (ed è la cagione che ci move a toccar questo punto anticipatamente, e a parte degli altri provvedimenti), qui insorgeranno senza dubbio più clamorose, più risolute, più incalzanti le obiezioni che le cose dette fin qui avranno già potute suscitare. Ne accenneremo quattro, che crediamo le principali e le più ripetute e confidiamo che un breve esame di esse potrà servire a mettere in più chiara luce l’assunto.
La prima è che, dovendo un vocabolario essere come il rappresentante delle cognizioni, delle opinioni, dei concetti d’ogni genere, d’una intera nazione, deve essere formato sulla lingua della nazione, e non sull’idioma di una città.
A questo rispondiamo che in Firenze si trovano tutte le cognizioni, le opinioni, i concetti di ogni genere che ci possano essere in Italia; e ciò, non già per alcuna prerogativa di quella città, ma come ci sono in Napoli, in Torino, in Venezia, in Genova, in Palermo, in Milano, in Bologna, e anche in tante altre città meno popolose, essendoci in tutte, a un dipresso, un medesimo grado di coltura, una conformità de’ bisogni, delle vicende, e delle circostanze principali della vita, insomma d’ogni materia di discorso. E si potrebbe scommettere, se ci potesse anche essere il giudice d’una tale scommessa, che tutto ciò che è stato detto in un anno, di pubblico e di privato, di politico e di domestico, d’erudito e di comune, di scientifico e di pratico, di grave e di faceto, in una di queste città, è stato detto in tutte, meno, stiamo per dire, i nomi propri delle persone. Si dice tutti le stesse cose: solo le diciamo in modi diversi. Il dir tutti le stesse cose attesta la possibilità di sostituire un idioma a tutti gli altri; il dirle in modi diversi attesta il bisogno che abbiamo di questo mezzo.
L’obiezione che esaminiamo nega implicitamente questo bisogno; ma lo fa per una supposizione affatto gratuita, cioè che ci sia in Italia una lingua comune di fatto, e che non rimanga altro da fare, che di raccoglierla e metterla in un vocabolario.
Sul valore di questa supposizione basteranno qui pochi cenni.
Che ci sia una quantità indefinita di locuzioni comuni a tutta l’Italia, o perchè si trovino primitivamente ne’ suoi vari idiomi, o per essere venute comunque e donde che sia, è un fatto che a nessuno potrebbe neppure venir in mente di negare. Ma nessuno vorrà nemmeno affermare che una quantità qualunque di locuzioni basti a costituire una lingua. Se questo fosse, non avrebbe alcun senso ragionevole il titolo di lingua morta, che si dà, per esempio, alla latina. Ma un tal senso lo ha, e importa, per l’appunto, una quantità bensì di locuzioni, ma una quantità non adequata a una intera comunicazione di pensieri tra una società