Del veltro allegorico di Dante/XL.
Questo testo è incompleto. |
◄ | XXXIX. | XLI. | ► |
XL. A quei giorni Arrigo giungeva in Milano (dicembre 23); e tutta nel suo venire l’Italia in contrari studi si divideva. Illustre moltitudine accorse al campo imperiale: distinguevansi Franceschino Malaspina e suo figlio Moroello, cortesi ospiti dell’Alighieri, e Spinetta Malaspina di Fosdinovo, e non pochi degli Ubaldini: sopraggiunse lo storico Albertino Mussato inviato da Padova con altri egregi concittadini: Bernardino di Nogarola e Paganotto dei Paganotti arrivarono in nome di Alboino e di Can della Scala. Aver giá, dicevano i legati, la famiglia degli Scaligeri portato da lunghi anni l’aquila e la bandiera dell’imperio: avere Mastino I loro zio dato la vita per la causa imperiale: implorare oggi Alboino e Cane dal re dei romani, che di cotanta dignitá non restassero senza. Benignamente rispose Arrigo: non errò dunque l’Alighieri allorché narrava che gii Scaligeri portavano per insegna l’aquila imperiale fin dal 1300 (Farad. XVII, 72); ciò che faceva Mastino I qual banderaio dell’imperio innanzi che i suoi nipoti divenissero imperiali vicari (1311). Con tal nome chiamò Arrigo coloro che nel metter piede in Italia prepose al governo delle cittá, cui tolse il diritto di eleggere i podestá. Insignito della corona di ferro in Milano, ei dichiarò vicari Alboino e Can della Scala in Verona (gennaio 6), in Mantova i Buonaccolsi, e i signori di Camino in Trevigi: non che Matteo Visconti a Milano e in Parma Franceschino marchese Malaspina.
La ribellione di Brescia ruppe il corso delle prime prosperitá di Arrigo VII (febbraio 24). In prima egli commise a Moroello figlio di Franceschino Malaspina di recare alla cittá parole di pace: ma forte adirato del rifiuto di quel popolo, ei fece stringere Brescia gagliardamente di assedio, e tosto egli medesimo si avviò a quella volta, nell’atto che Franceschino Malaspina giungeva in Parma nel 14 aprile 1311, carissimo a Giberto di Correggio. Da un’altra parte Cane della Scala, in nome dell’imperio, impadronivasi di Vicenza, e scacciavane i padovani ai quali fin dalla morte di Ezzelino era soggetta (aprile 15). Saccheggiatola senza pietá Cane la pose in mano di Gerardo da Enzola speditovi per vicario da Arrigo VII: a Gerardo ben presto succedé Arrighetto figlio di Guglielmo conte di Castelbarco. Alternava così la fortuna dell’imperio nelle varie parti d’Italia: ma la riduzione di Brescia premeva l’animo di Arrigo, e bandiva da lui ogni altro pensiero. Di grave rammarico agli esuli fiorentini fu il suo essersi ostinato in quella impresa: e però, caldissimo d’impazienza, gli scrisse Dante nel 16 aprile 1311, che l’oppugnazione di Brescia guasterebbe affatto le cose dell’imperio: che non si voleva combattere in Lombardia ma in Toscana: che in questa giaceva Firenze, volpe frodolenta, pecora inferma, vipera ingrata; Firenze non meno empia di Mirra ed ugualmente iniqua che Amata male ardita, la quale col laccio furialmente s’impiccò. Contro Firenze volgesse Arrigo il forte suo braccio: a quella schiacciasse il capo col piede, pazza e malvagia. Essersi, quale vergogna! essersi la femina dolorosa data in potere di re non suo; e, per animo di mal fare, non sue ragioni voler pattuire con esso. La fine di Agag, la sorte degli Amaleciti doversi ai fiorentini serbare; uccidesse Arrigo, percuotesse questi peccatori: e così Giovanni di Lucemburgo, regale suo primogenito, apparisse al mondo in figura di Ascanio, ed egli sacratissimo re in quella di Enea spegnitore dei ribelli e di Turno rimettesse gli esuli a casa. Né qui posava l’iroso, ma per affrettare Arrigo dicevagli che ai forniti fu sempre danno l’aver differito di assalire i nemici: questi erano i detti stessi a Cesare sul Rubicone, pei quali Dante avea condannato (Turione in inferno al taglio della lingua nella strozza (Inf. XXVIII, 97-102). Siffatta sua lettera la dava l’Alighieri di Toscana sotto le fonti di Arno, che non sono altrove se non a cinque miglia da Porciano dei conti Guidi. A Porciano, per corto ed alpestre cammino sulle terre di Modena, erasi recato l’Alighieri da Parma ove senza dubbio era giunto due giorni prima in compagnia di Franceschino Malaspina. Compiuto il viaggio di oltremonti, PAlighieri si riputò felice di rivedere il Casentino e di ricalcare il suolo nativo: quasi volesse vagheggiarlo, ei gioiva di scrivere dalla Toscana. Le infiammate parole della lettera, se possono sembrar meno pietose verso Firenze, sono di uomo giustissimo estimator della guerra e del pericolo dell’assedio di Brescia. Imperocché i fiorentini stessi confessavano di essere spacciati se gli avesse Arrigo assaliti: ma, fatto cuore per la resistenza di Brescia, fornironsi, e rinfrescarono le amistá con quei di Siena e di Lucca e di Bologna: Roberto di Napoli pose in punto il suo esercito, e stette saldo in sulle difese. Non per questo tralasciava l’Alighieri e cogli scritti e colla voce d’incoraggiare gli spiriti di Toscana e di Romagna. Venuto in celebritá per la pubblicazione á.zW’Inferno, egli era lo scrittore dei ghibellini, egli la mente piú ardita e il piú animoso ingegno fra i suoi. E bene agevolmente la subita natura di lui spiacque forse ai conti di Porciano: i quali, quantunque ghibellini, mantenevano intime relazioni coi loro parenti di parte guelfa. Or, poiché luogo non onorevole in Inferno aveano sortito Guido Guerra VII e i loro cugini di Romena, o che pungesse quei di Porciano il desio di vendicar l’onta della famiglia, o che troppo imprudenti sembrassero gli scritti e il dire del poeta mentre Arrigo era si lungi dalla Toscana, è fama di essere stato PAlighieri prigioniero per alcun tempo nella torre maggior di Porciano. Interrogato il contadino in tutti i luoghi vicini risponde tuttora, che Dante fu in quella rinchiuso: una recente iscrizione a pie’ della torre attesta l’antica tradizione, assegnando al fatto impossibile causa, la battaglia di Campaldino. Ma la lettera del 16 aprile 1311 dimostra che Dante aggiravasi colá sotto la fonte di Arno in quel giorno: accesissimo partigiano dell’imperio, e soverchiamente confidatosi nella protezione di Arrigo, di leggieri potè increscere ai conti e nella torre aver patito alcuna molestia. Ai racconti, che di ciò si ascoltano in Casentino, aggiunge fede l’asprezza con cui nel decimoquarto canto del Purgatorio l’Alighieri tratta da bestie immonde quei di Porciano (Purg. XIV, 43 45)- Qui giova osservare che tal canto sembra composto poco appresso la sua lettera, e con le medesime intenzioni: perocché, ripigliati gli sdegni, Dante flagella indistintamente i toscani tutti, amici o nemici che fossero. Alla fine del canto precedente aveva egli toccato nuovamente della vanitá dei sanesi (Purg. XIII, 151-154): ed or da capo morde Firenze, per suo avviso misera fossa (Purg. XIV, 51). Ed appella botoli gli aretini (ib. 46), e volpi ripiene di frode i pisani (ibid. 53): ciò che per altro è ben lungi dal volere che Pisa fosse distrutta e i suoi abitatori si affogassero in mare, per espiar la morte del conte Ugolino.