Del veltro allegorico di Dante/LII.
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LII. Uguccione intanto, cui l’etá non avea scemato le forze guerreggiava con lo Scaligero a danno di Brescia. Si rivolsero indi contro i padovani, che in dispregio della pace aveano tentato di sorprender Vicenza, e dei quali con ampia strage fu punita l’audacia (maggio 22). Cane Grande non credè poter meglio difendere Vicenza, che col concederne ad Uguccione l’arbitrio supremo: il Faggiolano vi ebbe titolo di podestá, e fece austera vendetta degli abitanti che aveano favoreggiato gli assalitori. Poscia (agosto), cogli aiuti di Cane Grande s’incamminò il Faggiolano alla volta di Lunigiana, ove Spinetta Malaspina gli diè ricetto, confidatosi di riporlo in Pisa col favor dei Lanfranchi e di altri principalissimi ghibellini. Ma venne a niente l’impresa; Coscetto del Colle uccise quattro dei Lanfranchi, e il Faggiolano tornò a Vicenza. Quivi egli ascoltò il caso di un suo figlio, forse Ranieri II, al quale Aghinolfo conte di Romena e fratello di Alessandro conduceva lietamente in moglie una figlia: ma i bolognesi, contrastato il passo alla sposereccia brigata, ritennero prigionieri così la donna che il genitore. Né guari andò che Ranieri stesso fu discacciato da Borgo San Sepolcro, per opera di Carlo Graziani, cui l’indole guelfa e i favori della corte di Napoli aveano reso fieramente avverso a quei della Faggiola. Da Carlo provenne Antonio Graziani elegantissimo dicitore, che dettò latinamente la storia della sua cittá e dei suoi maggiori; ma nel quale si può in veritá desiderare, allorquando scrive di Uguccione, animo piú riposato e libero dagli antichi sdegni delle loro famiglie. Alla stessa inclemenza della fortuna soggiacquero in fine del medesimo anno gli amici del Faggiolano, essendosi Castruccio Castracani (signor di Lucca) unito in alleanza col conte Gaddo della Gherardesca, ed avendo ferocemente assalito Spinetta Malaspina; il quale, cedendo all’avversitá, riparò presso Cane del pari.
Allora la corte veronese, nobilitata da si illustri sventurati, vinse ogni altra d’Italia. Guido di Castello che fu ospite in Reggio deH’Alighieri, e Sagacio Gazzata concittadino di Guido e scrittor delle croniche attestatrici della magnificenza dello Scaligero, agitati dai moti della loro patria vi rifuggirono anch’essi. Racconta Sagacio, scrivendo appunto dell’anno 1318, che piú volte con Cane Grande sederono a mensa egli, e Dante Alighieri e Guido da Castello, il semplice lombardo. Nondimeno con uomini di questa fatta male si accoppiavano i buffoni e i giullari, garrula turba che a grandi spese nudriva Cane Scaligero. Lo stesso Uguccione della Faggiola non fu esente dal motteggio dei cortigiani. Un giorno a mensa divisava per diletto della sua gioventú e del suo largo mangiare: l’uno di essi per nome Pietro Navo: — Qual maraviglia? — gridò. — In un solo banchetto non divorarsi, o Uguccione, Pisa e Lucca egregie cittá? — Cotal rampogna sembrò scortese alle gentili persone. Pur di gran lunga fu piú scortese lo Scaligero coll’Alighieri; chiestogli, perché i buffoni piacessero, e perché a tutti Dante increscesse? Stato alquanto sopra di sé: — Perché ciascuno ama il suo simile — disse il poeta. Infíno allora, quantunque sdegnoso di avere stanza ove i buffoni si tenevano in pregio, egli avea mostrato la sua gratitudine allo Scaligero inviandogli di tratto in tratto non i vari canti di tutto il poema, si come afferma il Boccaccio, ma quelli del Paradiso dal decimo fino al vigesimo; poiché lo stesso Boccaccio e i monumenti piú certi fanno chiaro, che gli ultimi tredici non furono ricongiunti alla Divina Commedia e non le diedero final compimento se non dopo la morte dell’Alighieri. Or questi, quando lo Scaligero perdé i rispetti, sloggiò dalla cittá verso i cominciamenti a un bel circa del 1318. In Verona, ove attese alla ragione civile, Pietro Alighieri con la sua rimanente famiglia venuta di Firenze fermò stabile sede. In Val Pulicella mostrasi tuttora il castello di Gargagnago, che i piú credono essere stato abitato da Dante: se ciò fosse avvenuto in tempo del gran lombardo, ovvero di Can della Scala, io non saprei dir con certezza. E nulla si può recare in mezzo per sapere se veramente il poeta esercitò in Verona l’officio di giudice: la qual cosa narravasi un di apparire dalle stesse scritture di lui.
La pace di Toscana e di Romagna poste ugualmente in quell’anno sotto la protezione di Roberto, e la minor severitá di Firenze verso gli usciti aprivano a costoro piú agevoli vie per aggirarsi fuori della lor patria. L’Alighieri adunque ne venne facilmente di Lombardia in Romagna; ivi trovò estinto Scarpetta degli Ordelaffi, non ancora compiuto l’anno dalla liberazione di esso. Dalla Romagna Dante trasferissi a Gubbio, che all’esempio delle altre cittá guelfe riaccoglieva i suoi esuli ghibellini; e vi ritornava con essi da Viterbo, dov’era stato podestá. Bosone Raffaeli. E vi ha ricordanza non dubbia che l’Alighieri, o che il vincesse la noia dell’esilio e dell’insolente pietá dei grandi, o che alla mente travagliata dalla fatica del poema cercasse riposo nella solitudine, visitò la badia camaldolese di Fonte Avellana, detta di Santa Croce, a venti miglia da Gubbio.
S’innalza il monistero sui piú diffícili monti dell’Umbria. Gli è imminente il Catria, gigante degli Appennini; e si l’ingombra che non di rado gli vieta la luce in alcuni mesi dell’anno. Aspra e solinga via tra le foreste conduce all’ospizio antico di solitari cortesi, che additano le stanze ove i loro predecessori albergarono l’Alighieri. Frequente sulle pareti si legge il suo nome: la marmorea effigie di lui attesta l’onorevole cura che di etá in etá mantiene viva in quel taciturno ritiro la memoria del grande italiano. Moricone priore il ricevè nel 1318: e gli annali avellanensi recansi ad onore di ripetere questo racconto. Che se lo tacessero, basterebbe aver visto il Catria e leggerne la descrizione di Dante (Farad. XXI, 106iii) per accertarsi, ch’egli vi ascese. Di quivi egli, dalla selvosa cima del sasso, contemplava la sua patria, e godeva di «lire che non era dessa lungi da lui (ibid. 107). E combattea col suo desiderio di rivederla; e, potendo ritornarvi, si bandiva egli stesso di nuovo per non soffrire l’infamia. Disceso dal monte, ammirava i costumi antichi degli avellaniti; ma fu poco indulgente coi suoi ospiti, che gli sembrarono privi delle loro virtú (ibid. 113-120). A quei giorni e nei luoghi vicini a Gubbio sembra che si debba porre l’aver egli dettato i cinque canti oltre il vigesimo del Paradiso. Imperciocché nella menzione che fa di Firenze allorché nel vigesimo primo parla del Catria, ed in ciò che dice nel vigesimo quinto del voler ei prendere sul fonte del suo battesimo la corona poetica, ben si ravvisa la sua speranza di riavere la patria ed il suo bell’ovile (Parad’. XXV-1-12), superate che il tempo avesse le difficoltá intorno alla maniera del ritornarvi.
Mentre l’Alighieri, non ancor vecchio, aspettava in Gubbio le opportunitá necessarie, prese quivi ad erudir nelle lettere Ubaldo, figliuolo di Bastian da Gubbio autore del sermon della morte, ovvero del Teleulelogío. Con piacere simile a quello degli avcllaniti s’insegna in Gubbio la casa ove albergò il poeta: questa lu poi dei conti Falcucci, che vi scolpirono in marmo l’elogio. La via, ov’ella è posta, è detta di Dante. Nell’archivio degli Armanni si osserva, in antica scrittura, un sonetto gratulatorio a Boson da Gubbio sui progressi del figlio di lui nello studio della lingua greca e della francese, il qual sonetto porta il nome di Dante: di qui sorge la congettura che questi, come fece di Ubaldo, così avesse avuto a discepolo il giovinetto Raffaeli. Agli Armanni, dei quali ho accennato, apparteneva quell’Armannino da Gubbio, giudice in Bologna, il quale dedicò a Bosone Raffaeli trentatré libri delle istorie dette le Italiane Fiorita; e cui l’amicizia con Bosone o la simiglianza dei loro studi non meno che l’ordine dei tempi fan credere facilmente amico di Dante. Gubbio spira da per ogni dove le rimembranze dell’Alighieri; sei miglia lungi da essa il piccol Saonda lambisce il castello di Colmollaro, posseduto giá da Bosone: in quello vissero insieme i due ghibellini, e coi presidio delle lettere cercarono di obbliare le loro calamitá cittadine.