Del principe e delle lettere (Alfieri, 1927)/Libro terzo/Capitolo V
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Capitolo Quinto
Dei capi-sètta religiosi; e dei santi e dei martiri.
Havvi un’altra specie di uomini sommi che, virtú e veritá insegnando, al pubblico talvolta giovarono; e a se stessi acquistarono quasi sempre gran fama. Son questi i fondatori delle sètte diverse, i santi ed i martiri, cosí cristiani che giudei o di altre religioni. Costoro, o scritto abbiano od operato, come dottissimi nella scienza dell’uomo, io li ripongo pur sempre a ogni modo nella classe dei sublimi scrittori. I nostri massimamente, come a noi piú noti, non pochi né deboli argomenti mi prestano per sostenere questo mio giá tante volte ripetuto assunto: che alla veritá e virtú, sotto qualunque aspetto elle s’insegnino, moltissimo pur sempre nuoce il principato. Né di costoro parlerò io piú a lungo che non si aspetti a questo mio tema; perché troppe cose mi si appresenterebbero da dirsi su ciò, se deviar mi volessi.
Osserverò dunque che a Mosè (il piú antico tra questi, a noi noto) convenne pure scuotere il giogo del tiranno d’Egitto, prima di poter egli dar leggi sí religiose che civili al suo popolo. Ed anzi, chi non vede che egli, per dar corpo, libertá ed esistenza a quel popolo errante e avvilito dal lungo servaggio, del sublime velo di una ispirata religione felicemente si valea? E all’operare e scrivere tai cose non lo avrebbe certamente mai protetto quel Faraone.
Cosí Gesú Cristo, politicamente considerato come uomo, volle pur anco, insegnando la veritá e la virtú con l’esempio, restituire al suo popolo ed a molti altri ad un tempo, per via di una miglior religione, una esistenza politica indipendente dai romani, che servi ed avviliti li teneano.
Cosí Maometto, coll’abbattere la idolatria, volle, sotto il velo di una piú semplice e pura religione, dar consistenza di nazione a popoli barbari che non l’aveano; al che, oltre ogni credere, riusciva Maometto.
Come legislatori, si debbono dunque costoro annoverare infra i sublimi scrittori, poiché eran mossi dallo stesso impulso di giovare altrui acquistando gloria a se stessi. E tali erano certamente nella Cina Confucio, e nell’Indie Zoroastro, e fra altre nazioni molti altri, di cui non sappiamo.
I nostri santi poi, o scrittori fossero, come Paolo, Agostino, Grisostomo, Girolamo ed altri; o colla parola, e piú coll’esempio, predicassero essi virtú, come Francesco, Domenico, Bernardo ecc.; o, col loro eroico morire, nei cuori degli uomini in note di fiamma e di sangue lasciassero essi scolpita la memoria del loro sublime imperturbabile animo, e l’ardentissimo desiderio d’imitare la loro virtú, come Lorenzo, Stefano, Bartolommeo e tante altre centinaia di martiri; costoro tutti, avendo avuto al loro operare lo stessissimo sovrano irresistibile impulso che debbono avere i veri letterati, alle stesse vicende di essi, per vie e cagioni diverse, soggiacquero. E mi spiego. Costoro, finché furono lasciati fare da sé, puri, incalzanti e severi mostraronsi; perseguitati, divennero piú luminosi, piú forti e maggiori direi di se stessi; protetti finalmente, accolti, vezzeggiati, arricchiti e saliti in potere, si intiepidirono nel ben fare, divennero meno amatori del vero, e peranche sotto il sacrosanto velo di una religione omai da essi scambiata e tradita, asseritori vili si fecero di politiche e morali falsitá.
Una moderna noncuranza di ogni qualunque religione, frutto anch’essa (come ogni altra rea cosa) del principato, fa sí che i nostri santi non vengano considerati e venerati da noi come uomini sommi e sublimi, mentre pure eran tali. Ciò nasce, per quanto a me pare, da una certa semi-filosofia universalmente seminata in questo secolo da alcuni scrittori leggiadri, o anche eccellenti quanto allo stile, ma superficiali, o non veri, quanto alle cose. I libri di costoro, andando per le mani di tutti, stante la loro seducente facilitá, imprestano una certa forza d’ingegno a chi non ne avea per se stesso nessuna; a chi poco ne avea un’altra poca ne accrescono; ma a chi moltissima ne avea da natura, se altri libri non avesse letti che quelli, riuscirebbero forse a deviargliela affatto dalla vera strada. Da questa semi-filosofia proviene che non si sfondano le cose, e non si studia, né si conosce appieno mai l’uomo. Da essa proviene quella corta veduta per cui non si ravvisa nei santi il grand’uomo, e nei grandi uomini il santo. Per essa non si scorgono manifestamente negli Scevoli e nei Regoli i martiri della gloria e della libertá; come nei bollenti e sublimi Franceschi, Stefani, Ignazi e simili, non si ravvisano le anime stesse di quei Fabrizi, Scevoli, e Regoli, modificate soltanto dai tempi diversi. E tutto ciò, perché si rimirano i nostri con occhi offuscati da un pregiudizio contrario ai passati; e perché si giudicano dagli effetti che hanno prodotto, non dall’impulso che li movea, e dalla inaudita sublime tempera d’animo di cui doveano essere dotati; abbenché con minor utile politico per l’universale degli uomini l’adoprassero.
Ma in questi tempi, dai presenti scrittori (i quali mai non lodano né destano alcun entusiasmo, perché non ne hanno nessuno) vengono freddamente accennati con lodi poco sentite quei veri antichi santi di libertá, e interamente vengono derisi questi santi di religione. I moderni scrittori, in vece d’innalzare e insegnare la sublimitá, pigliandola per tutto dove la trovano, col loro debole sentirla e col piú debolmente lodarla, affatto la deprimono ed obliar ce la fanno. Ma, poiché i piú leggiadri fra essi (fattisi intieramente padroni di un’arme tanto possente quanto è la ingegnosa derisione) hanno pure scelto di migliorare e illuminar l’uomo col farlo ridere; minoramento grandissimo, a parer mio, hanno recato alla loro propria fama, per non aver essi rivolto quell’acuta leggiadria del loro stile massimamente contro ai principi, i quali assai piú male ci han fatto e ci fanno tuttavia che non i santi ed i preti. Il credere in Dio, in somma, non nocque a nessun popolo mai; giovò anzi a molti; agli individui di robusto animo non toglie nulla, ai deboli è sollievo ed appoggio. Ma il credere nel principe ha sempre tolto e torrá ai popoli ogni vera virtú, la felicitá, la fama, le ricchezze ed i lumi; agli individui ha tolto sempre e torrá il vero amore di gloria, la sublimitá, la virtú e l’ardire.
Ed in prova di quanto io dico, la stessa religione cristiana, ancorché acerba nemica della gloria mondana, si vede pure essere ella stata, se non incitatrice di libertá, compatibile almeno con essa e con la felicitá, ed anche con una certa grandezza dei popoli, in tutte quelle regioni ove ella veniva modificata alquanto, o per dir meglio, ritratta verso i semplici suoi antichi princípi. Il che vediamo tuttavia fra gli svizzeri, gli olandesi, e gl’inglesi. Ma mi si mostri da qual corte di principe mai (e siano pur anche i Titi, i Marc’Aureli, i Traiani), o da qual principato mai, veramente costituito tale, ne ridondassero (non dico popoli magnanimi e liberi che impossibil cosa è) ma molti o alcuni individui liberi, sublimi, virtuosi ed arditi, i quali con opere o scritti insegnando virtú e veritá, procacciassero utile vero a tutti gli uomini e fama eterna a se stessi. E siccome le religioni per lo piú soggiacciono ai governi, non i governi alle religioni; e siccome quanto male queste possono aver fatto all’ombra sempre e per mezzo dal principato lo faceano; si viene di necessitá a conchiudere che agli uomini in ogni tempo è stato arrecato assaissimo piú danno dai principi, che non mai da’ sacerdoti; e chiara cosa è che, migliorato o cangiato il governo, si può facilmente venire a migliorare e cangiare la religione, ad estirparne gli abusi e adattarla alla libertá, felicitá e virtú.
Ora, perché dunque questi nostri moderni leggiadri acuti scrittori, con vie maggior utile per gli uomini, e assai piú gloria e fama per se stessi, non combattevano colle armi possenti del ben adoprato ridicolo piuttosto il principato che la religione? Perché il principe armato era, e temevasi; non lo erano piú i preti, e schernivansi. Viltá è questa, viltá inescusabile, che lo scrittore, il libro e peranco i lettori degrada. Se la penna può pur per se stessa combattere contra il cannone e a lungo andare trionfarne, non otterrá ella mai per certo tal palma col far ridere gli uomini; ma ottenerla potrebbe bensí col farli pensare, piangere, fremere e bollire di vendetta e di gloria. Si potranno per tal via cangiare le loro opinioni; ché le felici rivoluzioni, per cui alcuni popoli dalla oppressione risorgeano a libertá, nascevano per lo piú (pur troppo!) dalle parole tinte nel sangue, non mai dalle tinte nel riso.
Ma ecco, che io, nol volendo, mi sono pure alquanto allontanato dal mio tema. Non credo però di essermene sí fattamente deviato, che da queste ultime mie parole, senza sforzata transizione, io non possa venire a conchiudere coerentemente il presente capitolo. Dico adunque che i capi-sètta, i profeti (che sommi poeti erano), i santi ed i martiri, nati per lo piú, come ogni altro insegnatore di sublimitá e virtú, acerrimi nemici d’ogni assoluta potestá, sotto essa allignare non poteano senza molto scapitare della loro forza e puritá. Aggiungo che i loro fatti, parole e focosi insegnamenti, svelavano indubitabilmente un animo innalzato, e insofferente di ogni oppressione, ove pure non volessero farsi oppressori essi stessi. Onde costoro, come uomini senza dubbio ad ogni modo sublimi, meritano, anche dai meno religiosi uomini, ammirazione, culto e venerazione.