Del principe e delle lettere (Alfieri, 1927)/Libro terzo/Capitolo VI

Capitolo VI

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Capitolo Sesto

Dell’impulso naturale.

Annoverate ho finora tutte le diverse classi di uomini sommi, che siano da noi conosciute: letterati, scienziati, politici, legislatori, artisti, capitani, capi-sètta, santi; e peranche v’ho incluso i principi stessi; per quanto mai possa esser grande questa specie, che tanti grandi uomini d’ogni sopraccennato genere impedisce e distrugge. Ma di quanti ne ho annoverati, di tutti dico che sommi veramente non furono mai, né sono, né saranno, né potranno mai essere in nessuna delle nomate classi coloro che a divenir sommi non avranno avuto per prima base l’impulso naturale.

È questo impulso un bollore di cuore e di mente, per cui non si trova mai pace né loco; una sete insaziabile di ben fare e di gloria; un reputar sempre nulla il giá fatto, e tutto il da farsi, senza però mai dal proposto rimuoversi; una infiammata e risoluta voglia e necessitá, o di esser primo fra gli ottimi, o di non essere nulla.

Piú laudevole e maggiore debb’essere questo impulso, in proporzione della grandezza del fine che egli si propone, e della grandezza dei mezzi che adopera per conseguirlo. Ma da questo immoderato amore di giovare a se stesso con la gloria, non dée né può mai andarne disgiunto l’amore dell’utile altrui. Da questo utile, ampiamente provato coi fatti, si aspetta poi in [p. 215 modifica] premio quella testimonianza della propria superioritá che, spontaneamente uscendo dalle bocche degli uomini liberi, sola costituisce la vera fama e la gloria di chi n’è l’oggetto. Ardirei pure aggiungere che i semi per cosí dire di una tale testimonianza giá stanno nel cuore e nell’intelletto del grande che veramente n’è degno; ma che il solo pubblico grido li feconda poscia e sviluppa.

Questo divino impulso è una massima cosa, senza la quale nessun uomo può farsi sommo davvero. Ma non perciò tutti quelli che l’hanno (e son sempre pochissimi) riescono a farsi sommi davvero; che pur troppo questo divino impulso può essere dai tempi, dall’avversa fortuna e da mille altre ragioni indebolito, deviato, trasfigurato ed anche spento del tutto. Quest’impulso è una sovrana cosa, cui niuna potenza può dare, ma ogni potenza bensí lo può togliere. La libertá lo coltiva, lo ingrandisce e moltiplica; il servaggio e il timor lo fan muto. Quindi tanti uomini grandi sviluppansi nelle vere repubbliche; cosí pochi e di tanto minori nei principati; ancorché dei capaci di farsi tali ve ne nascano pure. Quindi i grandi in repubblica son sempre grandi di piú utile e vera grandezza, che i grandi nel principato: quindi gli uomini, quasi eguali e simili per loro natura in ogni contrada, riescono cosí diversi da nazione a nazione, e da tempo a tempo fra le nazioni stessissime: quindi, in somma, si vedono fra i popoli tenuti giá barbari sorgere le stesse virtú e grandi opere, di cui piú non si vede né l’ombra pure fra i popoli che, giá colti e liberi, rimbarbariti ora dalla servitú se ne giacciono. Lo stesso impulso naturale che creava uno Scevola in Roma nascente, creava un Decio in Roma perfetta, un Gracco in Roma giá guasta, un Mario in Roma morente, un Giulio Cesare in Roma giá spenta; e forse anche un Sisto quinto in Roma ecclesiastica. Ora, chi potrá dubitare che (mutati costoro di tempi) Cesare, con quella stessa smisurata ambizione che lo forzava a farsi da piú degli altri, nato nei tempi della prima libertá, non potendo primeggiare in potenza, non avrebbe, come Scevola, voluto soverchiar gli altri tutti in virtú? E che Scevola, nato ai tempi di Cesare, vedendo la virtú inutile e [p. 216 modifica] vinta, non avrebbe come egli cercato la maggioranza e la fama nella sola usurpata potenza?

Ma parlando io qui delle lettere, piú che d’ogni altro genere di umana grandezza, mi conviene dimostrare quale e quanta influenza abbia sovr’esse questo naturale impulso negli scrittori. Ed è questo un raro e prezioso privilegio delle lettere sovra tutti gli altri rami dell’umana grandezza, che chi ha veramente questo impulso e, avvedendosene in tempo, sottrar lo sa dalle ingiurie e danni che arrecare gli possono sí l’altrui autoritá e protezione, come il proprio ozio, bisogno e timore; quegli può fare ogni piú eccellente e somma cosa da se stesso. Questa divina arte dello scrivere, ella è pure innegabilmente per se medesima la piú indipendente di tutte, come giá ho dimostrato nel libro secondo; e la piú innocente ad un tempo, poiché a nessuno può recar danno, se non al vizio: e la piú utile in somma, poiché a tutti può, e dée voler sommamente giovare. Quindi è, che al fare, per esempio, la grandezza di Giunio Bruto, erano necessari i Tarquinii tiranni, Lucrezia stuprata, Collatino giustamente disperato, il furore dei cittadini, il molto sangue sparso e nel fòro e nel campo, e la uccisione in fine dei propri figliuoli di Bruto; cose tutte lamentevoli, e lungamente riuscite dannose, prima che l’utile ed il bene ne ridondasse; ma al fare la grandezza di Omero, null’altro era necessario che Omero stesso e il naturale suo impulso.

Il primo obbligo dunque di chi si destina scrittore, egli è d’imparare a conoscere in se stesso questo sublime impulso; e, conosciuto, a dirigerlo. Appurando cosí i propri suoi mezzi, ove egli senta vivamente in se stesso la evidente certezza di un tale impulso, fermamente dée credere che egli tutto fará da se stesso; e che ogni protezione potrá nuocergli, e nessuna giovargli.

Ma, come mai potrá il candidato scrittore conoscere se egli abbia o no questo impulso? Dai seguenti sintomi. Se egli, nel leggere i piú sublimi squarci dei piú sublimi autori, altro non sente nascere in sé che commozione e diletto, egli è come i molti che stupidi non sono; se vi si aggiunge la maraviglia, [p. 217 modifica] egli può giustamente riputarsi qualche cosa piú; ma però ancora minore dello scrittore ch’egli ha fra le mani, e delle descritte cose; e quindi egli è nato soltanto per leggere, e pensare da sé; ma se egli, in vece della semplice maraviglia, si sente a quella lettura accendere nel cuore come da improvvisa saetta un certo sdegno generoso e magnanimo, che in nulla sia figlio d’invidia, e che pure denoti assai piú che emulazione; costui chiuda il libro, si faccia libero, se tale ei non è, che egli ben merita d’esserlo; e scriva costui, e non imiti, ch’ei sará grande e imitato. Questa nobile ira non può nascere, se non da un tacito e vivissimo sentimento delle proprie forze, che a quel tratto di sublime si sviluppa e sprigiona dalle piú intime falde dell’animo: ella è questa la superba e divina febbre dell’ingegno e del cuore, dalla quale sola può nascere il vero bello ed il grande. È questa quell’ira, che in ogni midollo d’Alessandro scorrea, nel solo udir profferir il nome di Achille; è questa quell’ira che bolliva in petto di Cesare all’udir di Alessandro; in quel di Temistocle nel vedere i trofei di Milziade; in quello di Cicerone nel legger Demostene. E cosí ogni grande che è nato per fare, alla semplice vista di chi fatto ha, rabbrividire si sente.

Ad uomo di cosí alto animo non v’ha protezione al mondo, che nuocere non gli debba; perché non gli può venir mai se non da un uomo assai minore di lui; nessun favore gli è necessario; perché nessuno può accenderlo mai quanto il suo proprio impulso naturale; pochissimi ostacoli impedire lo possono, ove egli abbia superato i primi; perché chi lo spinge è sempre piú forte di chi lo ritrae.

Ai pochi simili potrá forse piacere e giovare questo libercoletto, quale ch’ei sia; imparandovi essi a conoscere, sentire e apprezzare se stessi ed altrui.