Del principe e delle lettere (Alfieri, 1927)/Libro terzo/Capitolo IV
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Capitolo Quarto
Se abbia giovato maggiormente la perfezione delle scienze
ai popoli servi moderni
o la perfezione delle lettere ai liberi antichi.
Paragonate ho fin qui le lettere e le scienze fra loro nella origine, cagioni, mezzi e vicende: mi resta ora a paragonarle nei loro diversi effetti. Da questi principalmente potrá ogni uomo tra l’une e l’altre giudicare quali piú importanti siano ed utili; e quali, sotto un tale aspetto, debbano necessariamente piú apprezzarsi da gli uomini e meno temersi dai principi.
Dalla dottrina di Euclide e di Archimede ne risultava quasi perfezionata la geometria sublime. Ma la geometria triviale e la piú necessaria (cioè le primitive leggi delle linee) era giá ben conosciuta da tutte le nazioni anche barbare, senza ch’elle ne sapessero pure il nome. Cosí ai nostri tempi, i popoli piú idioti e rozzi fabbricano pure tuttavia e case e tetti e carri ed aratri ed ogni altro stromento di prima necessitá; geometri in ciò, senza punto avvedersene. Da quei grandissimi abbiamo noi dunque ricevuto la geometria sublime, che d’ogni altra scienza è base e radice. Per mezzo di essa si ebbe poi la misura dei pianeti, se ne calcolarono i moti, e le cagioni di tai moti furono assoggettate a inalterabili leggi dall’ingegno dell’uomo, che certo piú oltre giungere non potea. Quindi la perfezione di tante arti minori; la navigazione spinta alle estremitá tutte del globo, e i limiti di esso trovati angusti dalla moderna cupidigia; quindi la fisica e la storia naturale cosí maravigliosamente ampliate. Cose tutte in vero grandiose, e per cui i romani, credutisi signori del mondo, assai piccioli si troverebbero se potessero ora convincersi co’ loro occhi qual menoma parte di questo globo occuparono, e qual minima parte dell’universo è dimostrato essere questo globo stesso dalla investigazione rettificata della universale armonia dei corpi celesti. Gran pascolo alla insaziabile umana curiositá; la quale pure, per quanto ai fonti della veritá si disseti, vede e tocca ogni giorno con mano, che quanto piú si sa piú ne rimane a sapersi. Che se le leggi dei corpi, scoperte e dimostrate, lusingano pur tanto la superbia dell’uomo, la ignota cagione di esse leggi e la sola terrestre generazione delle piante e degli animali, nascoste entrambe negli arcani di una profondissima notte, assai piú lo lasciano avvilito e scontento.
Risulta dunque dalle scienze perfezionate questo immenso umano sapere; a cui nondimeno, affinché il tutto si sappia, rimane assai piú strada da farsi che non se n’è fatta. E da questo sapere, qual ch’egli sia, risulta ai moderni popoli l’utile dimostrato della navigazione e del commercio, in cui superano pur tanto gli antichi. Ma dalla navigazione e dal commercio ci derivano ad un tempo le infinite arti superflue, lo sterminato lusso e i tanti infami suoi figli, per cui siamo in ogni politica e morale virtú inferiori di tanto agli antichi. Né da questa universale perfezione delle scienze mi pare che le umane societá ne abbiano in quasi nulla ricevuto la perfetta o maggiore utilitá delle necessarie instituzioni. Dalla meccanica piú raffinata, e quindi dalla perfezione dei rurali stromenti, l’agricoltura, quell’arte necessaria e divina che la base è di tutte, non ha perciò ricevuto quell’accrescimento che ella promettere parea; e perché? Perché migliori erano le generose braccia di un libero agricoltore con un pessimo aratro, che non con un ottimo le vili braccia di un mal pasciuto schiavo. Ed in fatti, in queste nostre scienziate e serve regioni, si vede per lo piú la stessa quantitá di terra nutrire un assai minor numero di uomini che non ne nutriva fra le antiche poco scienziate, ma libere.
Dalla fisica rettificata e ampliata, dalla botanica cosí immensamente estesa, dalla anatomia perfezionata, dalla chimica tanto insuperbita, e da tante altre simili scienze, la medicina, che è la seconda arte necessaria ai corpi umani, non ne ha per ciò ricevuto dimostrabile accrescimento di utilitá. Moltiplicati sono i libri ed i medici ed i malori; ma le mortalitá sono pur sempre o le stesse o maggiori; niente di piú, o forse men lungamente, si vive fra noi, popoli dotti moderni, che fra i rozzissimi antichi; e dopo un lungo ragionare, osservare e scrivere, dopo la stessa circolazione del sangue scoperta e dimostrata, bisogna pure con certezza d’imparziale giudizio venirne a conchiudere che la poca scienza medica possibile a dimostrarsi, stava giá quasi tutta nel libriccino di Ippocrate. La chirurgia pare aver fatto molto piú progressi; e certamente gli ha fatti sopra i tempi barbari di mezzo infra i romani e noi, tempi in cui ogni scienza ed arte perduta si era: ma come sappiamo noi se bene o male operassero gli antichi chirurgi delle cólte nazioni? Ogni giorno, con lo scoprimento di inscrizioni o di pitture o di instrumenti o di altro, ci disingannano gli antiquari su le invenzioni di molte cose moderne, che privativamente ci andavamo attribuendo.
Ed ecco, a un dipresso, gli utili divini effetti che le scienze, di tanto accresciute, hanno recato ai moderni popoli. Esaminiamo ora gli effetti che hanno arrecato le lettere ai popoli liberi antichi; e, fra loro paragonandoli, poniamo in chiaro se maggiormente giovassero a quelli le lettere, o a noi le scienze; e cosí, se piú nuocesse a quelli la ignoranza nelle scienze o a noi il deviamento delle lettere.
Atene, tal ch’ella fu colla sua sublimitá e con i suoi difetti, Atene, madre d’ogni sforzo di politica virtú, madre di un cosí bel vivere e libero e civile; Atene in gran parte era pur tale creata da Solone. E Solone, non uomo scienziato, ma letterato era e filosofo; e il cuor dell’uomo profondamente studiato e conosciuto avea, piú assai che le leggi dei corpi. Ma Solone, in un tale e sí importante studio, quanto non avrá egli imparato da Omero profondo conoscitore, descrittore e commovitore sovrano di tutte le umane passioni ed effetti? E Socrate quindi, e Platone e Aristotile, e Sofocle ed Euripide, e Demostene e Tucidide e Pindaro e tutti in somma i sublimi filosofi e letterati di Grecia, figli essi stessi di libertá e di virtú, non furono poscia costoro in ogni tempo, a chi ben li lesse e sentí, un possente stimolo, un irresistibile incentivo al praticare, amare e difendere la libertá e la virtú? Ed ogni bel vivere civile, ogni virtuoso sforzo dell’uomo, ogni vera e durevole felicitá, ogni importante superioritá d’un popolo su l’altro, queste cose tutte, non sono elle nate pur sempre da libertá e da virtú? e non sono elle sempre sparite, all’apparire della schiavitú e dei vizi che di necessitá ne derivano?
Veniamo ora a Sparta. Quella sua maschia feroce virtú e libertá, che sí lungamente durò con maraviglia dei greci stessi, avvezzi pure a raccogliere il frutto delle ben fatte e ben osservate leggi; quella sublime Sparta non era ella interamente figlia di Licurgo? E Licurgo quale altra scienza coltivò mai né conobbe, fuorché quella del cuore dell’uomo e del retto? Che se Sparta in appresso non volle ammettere letterati nessuni, ciò fu perché inutili affatto i veri letterati riuscivano lá dove le severe leggi accendendo i cittadini a virtú; insegnamento era e diletto il praticarla a gara con sovrannaturale furore; e perché i falsi letterati sussistere non poteano certamente lá dove regnava la sola virtú. Ma i poeti nondimeno, come caldissimi ed efficacissimi encomiatori di virtú, o nascevano a Sparta, o vi erano accolti e ascoltati, ancorché stranieri. Tirteo e le sue maschie odi militari ne fanno prova. Oratori avea Sparta pur anche, e di ben altro nerbo forse, che Atene; appunto perché a piú maschi, risentiti animi, più forte e men lungo parlare abbisognasi. Non avea Sparta, no, di quegli oratori e poeti, da’ quali piú assai diletto che utile traendo si vada: e a ben costituita repubblica, non solamente necessari costoro non sono, ma potrebbero anzi piú nuocerle assai che giovarle, perché in un tal governo il maggior diletto vien giustamente riposto nel sempre e bene operare; ed il molto leggere non si scompagna mai dallo starsi. Quanto alle scienze, Sparta né i nomi pur ne conobbe.
Roma, se non per istituzioni e virtú, per vicende e grandezza almeno, assai piú illustre di Sparta e di Atene, Roma ricevea pure l’impulso della virtú militare che mai non perdette, da Romolo; alle civili e religiose virtú da Numa; alla libertá e grandezza, da Bruto. E Bruto, e Numa, e Romolo stesso, erano, sovra ogni cosa, conoscitori profondi, e scaltri commovitori del cuore umano e delle sue tante passioni; ciò viene a dire che costoro, in altre circostanze trovatisi, sommi scrittori si sarebbero fatti. A pochi uomini concede il destino di poter operare e di giovare al pubblico in atto pratico col presente lor senno. Quindi, se alcuni di quei pochi, a ciò atti ed a ciò non eletti, si trovano dalle loro circostanze impediti d’operare, questi colla lor penna insegnano agli altri ciò ch’essi eseguir non potevano; alle vacillanti pubbliche virtú soccorrono condilettevoli aiuti; ovvero al vizio giá trionfante ed in trono, muovono essi quella virtuosa guerra di veritá, che sola può, smascherandolo, felicemente combatterlo, e col tempo distruggerlo. Sono questi a parer mio i veri, anzi i soli scrittori; e i piú perfetti reputo, tra i loro libri, quelli che maggiormente un tale effetto producono. Onde, dividendo io questa stessa classe di uomini sommamente capaci a commovere e guidarne molti altri, in letterati attori e in letterati scrittori, osservo che Roma, nel fiore e nerbo della sua libertá, moltissimi dei primi ne annovera; e sono gli Orazi, gli Scevoli, gli Emili, gli Attilii e Regoli e Scipioni e Decii e Catoni; e quei tanti altri in somma, grandissimi tutti, bollenti a gara d’amor di virtú, di libertá e di gloria; tre sacre faville, onde si dée comporre ed incendere l’animo di ogni grande, e massimamente quello del vero e sublime scrittore. Ma di letterati scrittori incominciò poscia ad abbondar Roma nel suo primo decrescere, cioè in proporzione che scemando andavano i letterati attori; e cosí avvenir pur dovea; poiché, per la nascente corruzione, diveniva necessario il predicar e l’insegnar la virtú non meno con la voce e co’ scritti che con l’esempio. Quindi fra i piú antichi grandi scrittori di Roma, alcuni dei massimi, come Catone e Cicerone, riunirono in loro stessi le due divine parti dell’alto operare e dell’altamente dire; ma divenendo poi di giorno in giorno piú difficile e pericolosa cosa il praticare non meno che l’inculcare la virtú, gli scrittori romani da Augusto in poi si assomigliarono pressoché tutti in ogni cosa agli scrittori nostri moderni, che la virtú né praticare omai sanno, né inculcarla si attentano. Il frutto dunque delle scienze, nei nostri principati perfezionate e promosse, siam noi moderne nazioni; in ogni arte dottissime, fuorché nel libero, sublime e necessario esercizio dei dritti i piú sacri dell’uomo. Ma delle antiche e vere lettere, non distornate dal loro caldo ed unico fine, di render gli uomini sotto ogni aspetto migliori, erano il nobil frutto le antiche, libere, ed illustri al par che possenti e fortunate, nazioni.
Paragonando perciò con quelle i popoli nostri, e in tutti i diversi aspetti, sia d’interna felicitá, sicurezza e virtú, sia di esterna dignitá, grandezza e potenza, si verrá tacitamente a paragonare il diverso valore, la influenza, importanza ed utilitá delle scienze e delle lettere. A me pare, che da questo parallelo ben meditato si verrá apertamente a conchiudere che il vizio dei governi assoluti non osta alle scienze, né in chi scrive, né in chi legge, né in chi le protegge; e che, anzi, al promuoverle e perfezionarle è assolutamente necessaria una protezione qualunque, ancorché all’inventarle e crearle mortifera ella sia, come ad ogni altra util cosa. Ma da questo parallelo ben meditato, si verrá, spero, altresí a conchiudere che al ravviare le lettere, al far rivivere l’antica loro perfezione, e spingerla di qualche cosa piú oltre (il che impossibile non credo) assolutamente vuol essere libertá, e bollente amor di virtú, almeno almeno in chi scrive; ancorché, all’inventarle e crearle, la distruggitrice tirannide e la insultante protezione d’impedimento intero riuscire non possano. Ma un cosí forte impedimento son queste alla vera perfezion delle lettere, che la parola perfezione esclude assolutamente per esse ogni protezione di principe, la quale può sola macchiarle.