Del principe e delle lettere (Alfieri, 1927)/Libro primo/Capitolo X
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Capitolo Decimo
Non potendo il principe estirpare affatto le lettere, gli giova parerne
il rimuneratore e l’appoggio.
I viaggi, il commercio e l’arte del cambio, hanno emancipato per cosí dire gli abitatori d’Europa; quindi i nostri padroni e pedagoghi politici non ci possono piú tenere come bambini del tutto. In oltre, il rimanervi alcuna picciola parte d’Europa in cui l’uomo nasce o libero o meno oppresso, sforza anche i piú risoluti oppressori ad osservare alcuni indispensabili riguardi coi sudditi. In questo stato di cose, facilmente (pur troppo pe’ principi!) si promulgano le opinioni diverse, e si estendono rapidamente in Europa, allorché da eccellenti uomini vengono poste in iscritto. L’amore di novitá, l’ozio, la curiositá e anche il dolce fine di render se stesso migliore, sono le cagioni per cui da alcuni altri non volgari uomini si legge; e, fra tutti i libri, pare che quelli che scuotono il cuore dell’uomo siano piú universalmente letti e gustati. L’autore ottiene questa commozione in molte maniere; ma in nessuna piú efficacemente che illuminando con colori nobili patetici e forti le imprese grandi in se stesse, e da cui ne siano ridondati effetti importanti. E suole ciò farsi, o fingendo per via di poesia, o traendo dai fonti della storia, o perorando al popolo, o su le cose umane generalmente filosofando. Toltane dunque la passione d’amore, che sotto ogni governo può allignare, e piú sotto i meno virtuosi, se l’autore vorrá maneggiarne alcuna dell’altre allegandone splendidi esempi, bisognerá pur sempre ch’egli ricorra ai popoli liberi. Quindi è che ai giovinetti ampiamente si insegnano le cose di Roma, di Atene, e di Sparta, ma raramente e non mai si favella a loro di Persia, d’Assiria, d’Egitto, e dei loro tiranni. Volendo sotto qualunque velo insegnar la virtú, è dunque sforzato lo scrittore a cercarla dove ella è stata; ad indagarne o accennarne le cagioni, a narrarne gli effetti; e ad incoraggire in somma i lettori alla imitazione di essa. Perciò non mi pare che abbisogni di prove l’asserire che libro di sane lettere non vi può essere, il quale (per qualunque mezzo vi arrivi) non abbia però sempre per fine principalissimo ed unico l’insegnar la virtú. E intendo qui per virtú quella nobile ed utile arte per cui l’uomo, col maggior vantaggio degli altri, procaccia ad un tempo la maggior gloria sua.
Ammessa questa definizione, che mi pare innegabile, ogni buon libro (che non sia però di scienze esatte, delle quali parlerò in appresso) dée necessariamente in quasi tutti i suoi princípi offendere l’autoritá illimitata; poiché, per quanto voglia anche lo scrittore essere discreto e serbare riguardi, non può pure mai laudare il vizio; né, molto meno, può insegnare la vera virtú, senza dimostrare o accennare che il fonte di essa non può essere, e non è stato mai, né l’obbedire al capriccio di un solo, né il servire, né il tremare.
Ciò posto, io dunque dico che nessuna vera sublime epica poesia, nessuna tragedia né commedia né storia né satira né opera filosofica né arte oratoria, né in somma alcun ramo di belle lettere (tolto il madrigale, il sonetto puramente amoroso, e la pastorale) potrá mai riempire nel principato il suo proprio dovuto scopo e dare nel vero, senza offendere o piú o meno l’autoritá assoluta. E, se non volessi esser breve, e massimamente in questo primo libro, potrei ampiamente provare quanto asserisco. Ma per mille ragioni mi vaglia una sola; e siano i fatti. Domando: qual è il buon libro (veramente stimato tale) che, sviluppando altre passioni umane che l’amore, o tutto o in parte, da qualche principe, e in qualche tempo, non sia stato proibito o screditato o schernito o calunniato o perseguitato? Ma che pro? i libri sussistono e durano contra ogni ira, potente o impotente sia ella, purch’essi sian ottimi.
Non potendo adunque il moderno principe europeo assolutamente impedire che i libri buoni giá fatti continuino ad esistere e ad esser letti; né che alcuni altri buoni, ma sempre pochi, se ne vadano scrivendo, accortamente fará egli se saprá non mostrarsi interamente contrario alle lettere, e se saprá premiarne a tempo gli artefici; anteponendo però sempre i mediocri ai sommi e astutamente cercando di fare che i sommi rimangano o paiano mediocri, coll’impedir loro cortesemente di pensare e di scrivere, fin dove bisognerebbe. Per la stessa ragione egli fará benissimo di fingere di onorare gli scrittori morti, col ristamparli; ancorché tali siano che, se avessero scritto a tempo suo, sotto lui, gli avrebbe egli, potendo, piuttosto soffocati che non mai dati in luce. In tal guisa perverrá forse il principe a persuadere ai piú che egli non teme l’effetto di una certa libertá di scrivere e di pensare. E quella stessa apparente sua noncuranza sará anche uno scoraggimento grandissimo a chi sperasse di farsi un nome liberamente pensando e scrivendo; perché una certa persecuzione contro ai libri fortemente e luminosamente veraci, costituisce per lo piú la base della loro prima fama; e quindi maggiormente e piú presto propagandogli, assai piú utili in minor tempo li può rendere.