Del principe e delle lettere (Alfieri, 1927)/Libro primo/Capitolo XI

Capitolo XI

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Capitolo Undecimo

Quai premi giovi piú al principe di dare ai letterati.

Insorta dunque a poco a poco in Europa questa classe d’uomini che si assume l’incarico, pensando e scrivendo, di far pensare gli altri; e che, comunicando a tutti le proprie idee, perviene pure a spandere fra molti una semiluce; i principi, che ereditariamente si assumono l’incarico d’impedir di pensare, si sono di necessitá ritrovati nemici degli scrittori. Ma la vicendevole paura (come in tante altre occorrenze umane il vediamo) gli ha tosto rapprossimati. Gli autori, come giá accennai, mossi dal bisogno, dal timore e dalla vanagloria, per acquistar fama súbita, ancorché non durevole; i principi, mossi da vanitá, dal timore d’essere con ingegno derisi, smascherati e screditati per sempre, per parer buoni, e per non potere in fine altrimenti operare, attesa la gran piena presente de’ letterati, sono queste, o mi paiono, le ragioni vere, per cui questi fra loro naturali nemici si vengono a cangiare in protettori e protetti.

La maniera con cui si ricompensano i letterati dai principi è per lo piú con provvisioni pecuniarie, che chiudono loro la bocca a ogni veritá luminosa chiaramente e fortemente esposta, quale deve essere per farsi strada nell’instupidito intelletto del volgo ignorante e servo. Gli scrittori a vicenda, contraccambiano i principi con le smaccate lodi, con le deificazioni, co’ falsi poemi, storie alterate, libri di diletto senza utile, false massime in politica, falsa filosofia ecc. ecc. Da questo commercio di reciproca dissimulazione, il pubblico intanto ne rimane sempre piú cieco e ingannato; e sempre piú allontanato dal forte sentire e dal vero, che sono i soli fonti d’ogni alto operare. [p. 127 modifica]

Ma siccome in questo primo libro io cerco (per quanto sia pure possibile ad un uomo libero) di farmi principe e non letterato, dovrò dire che i principi fanno molto bene di operar cosí; poiché finora felicemente è riuscito loro, per via di mercede condita col timore, di spuntare in gran parte le saette dell’ira scrivana. Ed a provare anche questo, mi bastano i fatti. Chi può dubitare, per esempio, che Montesquieu e Corneille, non ricompensati né onorati dal principe, e aventi una esistenza indipendente affatto da lui, non sarebbero andati molto piú in lá nelle loro massime, sviluppando e lumeggiando col loro forte pennello tante importantissime cose spettanti alla felicitá umana, le quali si vedono appena accennate e velate assai nei loro timidi scritti?

Ma pure, i principi non sanno abbastanza impedire gl’ingegni sommi, colla loro bene adoprata protezione. E, piú d’ogni altro ente, il principe mi conferma quel profondo assioma del divino Machiavelli: «che gli uomini non sanno essere né del tutto buoni, né del tutto cattivi». Dicesi che il gran Voltaire nella sua gioventú avesse mostrato assai desiderio di servire il re in commissioni estere; ed io facilmente m’induco a crederlo, poiché questo autore, immemore in ciò di se stesso, non arrossí di sempre firmarsi: «Voltaire, gentiluomo di camera del re». Il principe o il ministro che non lo impiegò, commise dunque nell’arte principesca un errore non piccolo: Voltaire, impiegato dal re, e rappresentante il re, diveniva piccolo quanto il suo rappresentato; era vinto e legato per sempre; nulla avrebbe scritto, o poco, o quello soltanto che si sarebbe voluto. Cosí un autore sommo veniva trasfigurato in un ambasciatore mediocre, o forse anche ottimo; cosí si accresceva la gloria al re, e si diminuiva luce al popolo; cosí, finalmente, non si sarebbe dovuto soffrir poi per parte dei dominanti quell’umiliante confronto di veder Voltaire nei suoi ultimi giorni in Parigi, applaudito, seguitato, acclamato e trionfante piú assai che nessun principe il fosse mai stato. E verrá un tempo, in cui non si saprá altrimenti come fosse numerato quel Lodovico che allora regnava, se non perché trionfava a quel tempo in Parigi un Voltaire. [p. 128 modifica]

I principi dunque che vogliono sottrarre da tanta vergogna se stessi, e ad un tempo sfuggir la tempesta, debbono, nel premiare gli scrittori, dar sempre loro tali onori o mercedi, che interamente li distolgano dallo scrivere cose veramente grandi: e, allacciandoli colla gratitudine, direttamente o indirettamente li debbono costringere a disonorare se stessi, e a screditare le loro filosofiche massime, contaminandole colle lodi dei principi inopportunamente frammiste.