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piú risoluti oppressori ad osservare alcuni indispensabili riguardi coi sudditi. In questo stato di cose, facilmente (pur troppo pe’ principi!) si promulgano le opinioni diverse, e si estendono rapidamente in Europa, allorché da eccellenti uomini vengono poste in iscritto. L’amore di novitá, l’ozio, la curiositá e anche il dolce fine di render se stesso migliore, sono le cagioni per cui da alcuni altri non volgari uomini si legge; e, fra tutti i libri, pare che quelli che scuotono il cuore dell’uomo siano piú universalmente letti e gustati. L’autore ottiene questa commozione in molte maniere; ma in nessuna piú efficacemente che illuminando con colori nobili patetici e forti le imprese grandi in se stesse, e da cui ne siano ridondati effetti importanti. E suole ciò farsi, o fingendo per via di poesia, o traendo dai fonti della storia, o perorando al popolo, o su le cose umane generalmente filosofando. Toltane dunque la passione d’amore, che sotto ogni governo può allignare, e piú sotto i meno virtuosi, se l’autore vorrá maneggiarne alcuna dell’altre allegandone splendidi esempi, bisognerá pur sempre ch’egli ricorra ai popoli liberi. Quindi è che ai giovinetti ampiamente si insegnano le cose di Roma, di Atene, e di Sparta, ma raramente e non mai si favella a loro di Persia, d’Assiria, d’Egitto, e dei loro tiranni. Volendo sotto qualunque velo insegnar la virtú, è dunque sforzato lo scrittore a cercarla dove ella è stata; ad indagarne o accennarne le cagioni, a narrarne gli effetti; e ad incoraggire in somma i lettori alla imitazione di essa. Perciò non mi pare che abbisogni di prove l’asserire che libro di sane lettere non vi può essere, il quale (per qualunque mezzo vi arrivi) non abbia però sempre per fine principalissimo ed unico l’insegnar la virtú. E intendo qui per virtú quella nobile ed utile arte per cui l’uomo, col maggior vantaggio degli altri, procaccia ad un tempo la maggior gloria sua.
Ammessa questa definizione, che mi pare innegabile, ogni buon libro (che non sia però di scienze esatte, delle quali parlerò in appresso) dée necessariamente in quasi tutti i suoi princípi offendere l’autoritá illimitata; poiché, per quanto voglia anche lo scrittore essere discreto e serbare riguardi, non può