Del principe e delle lettere (Alfieri, 1927)/Libro primo/Capitolo VIII
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Capitolo Ottavo
Che il principe, quanto a se stesso, dée poco temere chi legge,
e nulla chi scrive.
Ma il timore, dovendo pur sempre essere la norma di ogni uomo che sotto qualunque titolo ne costringa ad arbitrio suo molti altri, dico, e spero di provare, che anco lo stesso timore dovrá indurre i moderni principi a non perseguitare i letterati, altrimenti che coi loro doni e col loro proteggente disprezzo.
Gli scrittori, per quanto esser possono caldi ed anche entusiasti, rarissimamente sono da temersi per se stessi; o sia perché la loro vita molle e sedentaria li rende poco atti all’eseguire o tentare azioni grandi; o sia perché lo sfogo del comporre indebolisce nella massima parte e minora il loro sdegno. Da temersi dunque sarebbero soltanto i loro scritti nella persona dei diversi loro lettori. Ma in questo secolo, in cui pur tanto si legge e si scrive, esaminiamo rapidamente quali siano coloro che leggono, e quali scritti e in qual modo si leggano. Quale animo vediamo noi, infiammato da quei tanti generosi tratti di storia antica, dar segno di averne ricevuto una profonda impressione, col fare o dire o tentare, o almeno caldissimamente lodare alcuna di quelle imprese alte e memorabili che dai moderni col freddo e vile vocabolo di «pazzie» vengono denominate? Ma poniamo anco che tali cose si vadano pure leggendo, e con qualche frutto; chi è che le legge? Non il popolo, che appena sa leggere; che, sepolto nei pregiudizi, avvilito dalla servitú, fatto stupido dalla povertá, non ha né tempo, né mezzi, né aiuti, per imparare a discernere i suoi propri diritti: ed egli pur solo potrebbe farli valere, conoscendoli. Leggono adunque veramente nel principato i pochi uomini rinchiusi nelle cittá; e fra questi, il minor numero di essi; cioè quei pochissimi che, non bisognosi di esercitare arte nessuna per campare, non desiderosi di cariche, non adescati dai piaceri, non traviati dai vizi, non invidiosi dei grandi, non vaghi di far pompa di dottrina, ma veramente pieni di una certa malinconia riflessiva, cercano ne’ libri un dolce pascolo all’anima, e un breve compenso alle umane miserie; le quali forse assai piú vivamente vengono sentite da chi il minor danno ne sopporta. E cosí fatti lettori (a questi soli attribuisco io un tal nome) che non sono uno in dieci mila, spaventare potrebbero il principe?
Leggere, come io l’intendo, vuol dire profondamente pensare; pensare vuol dire starsi; e starsi vuol dire sopportare. Si esamini la storia e si vedrá che i popoli tutti ritornati di servitú in libertá non lo furono giá per via di lumi e veritá penetrate in ciascuno individuo; ma per un qualche entusiasmo saputo loro inspirare da alcuna mente illuminata, astuta, e focosa: e neppur quella era una mente seppellita nell’ozio degli studi, ma pensante per se stessa, e di quel pensare che nasce da un sentimento naturale e profondo; forse risvegliato da un tratto di tale o tal libro, ma non mai accattato dai molti di essi. Ed in fatti, Giunio Bruto, Pelopida, Guglielmo Tell, Guglielmo di Nassau, Washington, e altri pochi grandi che idearono od eseguirono rivoluzioni importanti, non erano letterati di professione. Crederei anzi (e l’effetto finora me lo dimostra vero, pur troppo!) che i lumi, moltiplicati e sparpagliati fra i molti uomini, li facciano assai piú parlare, molto meno sentire, e niente affatto operare. Si parla e si legge e si scrive in Parigi; e ci si obbedisce pure finora, quanto e piú che a Costantinopoli, dove nessuno scrive e pochi san leggere. Ma pure, fra’ turchi, come in ogni altro asiatico dispotismo, sorge di tempo in tempo un tal capo che, nessuna altra dottrina conoscendo fuorché le leggi di natura fortemente sentite, dice con energica rozzezza a molti di quegli idiotissimi uomini: — Questo nostro principe è irreligioso, è tiranno, non è guerriero: si deponga, si uccida. — E spesso viene egli e deposto e ucciso.
Non nego però che a lungo andare, lo spirito dei libri non s’incorpori, direi cosí, nello spirito dei popoli, che nella loro lingua gli hanno; e penetra questo spirito in tutti gl’individui, o sia per tradizione, o sia per lettura effettiva, o sia per lo diverso pensare che si va facendo strada nel discorrere familiarmente; e penetra a tal segno che in capo a qualche secolo si trova poi mutata affatto l’opinione di tutti. Ma colla stessa lentissima progressione, si trovano poi anche mutati i mezzi e l’arte del comandare: e gli uomini (pur troppo) non si vengono niente meno di prima a tener sotto il freno da chi conoscere li sa e prevalersene.
Parmi adunque che i principi moderni, visto i progressi non impedibili oramai delle lettere, non abbiano perciò a perseguitare i letterati, perché in vano il farebbero; ma che sapendo essi serpeggiare fra loro e, per cosí dire, innestarseli, potranno forse riuscire a rendere col tempo le lettere non essenzialmente contrarie alla somma della loro illimitata autoritá, ed appena debolmente sfavorevoli a un certo eccessivo modo di esercitarla.