Del principe e delle lettere (Alfieri, 1927)/Libro primo/Capitolo VII
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Capitolo Settimo
Che i letterati perseguitati riescono d’infamia e danno al principe.
Che dirò poi del principe che, non pago di lasciargli alla necessitá, li perséguita? egli si apparecchia molta infamia, e molto piú danno. Se le cose deboli per se stesse (o almeno di una forza non palese a tutti, come lenta e lontana) possono pure mai nuocere al potente, l’unico mezzo affinch’elle nuocano si è lo inimicarle, mostrando di temerle. Gli uomini per natura inclinano dalla parte del debole; e gli oltraggi fatti dal principe all’universale sono giá tanti che, a farsi egli biasimare e abborrire, ci vuole assai meno che il perseguitar letterati. Ma dirá il principe: — Mi biasimino in voce costoro; poco e sommessamente il faranno: ma se io non gli opprimessi o cacciassi o affliggessi, mi biasimerebbero in iscritto, il che sarebbe assai peggio. — E molto bene ragionerebbe costui, se alcun cantuccio non rimanesse sul globo, donde il letterato potesse poi, ricovratosi in sicurtá, scagliare contr’esso di ogni sorta scritti, e ridersi dei suoi fulmini. Ma, poiché pure un tale asilo vi rimane in Europa, quale altro guadagno fará egli il principe, nel costringere il letterato a rifugiarvisi, fuorché la vergogna di manifestare in quale brevissimo cerchio il suo potere si confini?
Visto dunque lo stato presente delle cose, politica sana, e savia nel diciottesimo secolo, e adattabile ad ogni principe e grande e piccolo e mediocre, sará il proteggere, il pascere e premiando avvilire gli scrittori; e togliere cosí il valore e la fama alle lettere, coll’infamarne preventivamente i prezzolati artefici.