Degli edifizii/Libro secondo/Capo I
Questo testo è stato riletto e controllato. |
Traduzione dal greco di Giuseppe Compagnoni (1828)
◄ | Libro secondo | Libro secondo - Capo II | ► |
CAPO PRIMO.
Giustiniano fortifica la città di Dara
da Anastasio imperadore fondata nella Mesopotamia.
Nel passato libro abbiamo parlato de’ nuovi tempii che in Costantinopoli e nelle vicinanze Giustiniano Augusto fabbricò, e di quelli che ristaurò, rovinosi per l’antichità; come pure di tutti gli altri edifizii nella stessa metropoli inalzati. Or volgeremo il discorso alle fortificazioni, delle quali cinse le frontiere dell’impero romano: nel che avremo ad affaticare assai, arduo essendone l’argomento. Chè non di piramidi, opera tanto decantata de’ re di Egitto, fatte ad inutile pompa, dobbiam dire; ma descrivere le rocche, e i luoghi forti con cui il nostro Principe conservò l’imperio, di tal modo munendolo, che mandò a vuoto gli attentati dei barbari contro i Romani. E penso bene d’incominciare dai confini persiani.
Posciachè i Medi, restituita ai Romani Amida, dipartironsi dai confini di questi, siccome da me fu narrato ne’ libri delle Guerre, Anastasio Augusto fece cingere di mura l’ignobile borgo di Dara sul confine persiano, e procurò di farne una città, onde a’ nemici dar che fare, se volessero muovere da quella parte. Ma perchè nel trattato di pace fatto anticamente coi Persiani dall’imperadore Teodosio era stato pattuito, che nissuna delle due nazioni potesse sulle sue terre prossime a quelle dell’altra alzar nuova fortezza, i Persiani opponevano la fatta convenzione, ed in ogni maniera impedivano l’opera, quantunque allora fossero distratti dalla guerra cogli Unni. I Romani all’opposto vedendoli meno preparati ad usare la forza, con più animo erano intesi ad affrettar l’opera, e cercavano di compierla prima che i nemici, riconciliandosi cogli Unni, potessero più risolutamente portare le loro forze a quella parte. Da ciò nacque, che vivendo i Romani in sospetto, e continuamente temendo qualche ostile assalto, non troppo solidamente edificarono; ciò impedendo appunto il precipizio, con cui furono astretti ad operare: chiaro essendo che celerità e solidità non sogliono congiungersi; nè sono compagni il lavoro subitaneo colla osservanza esatta di quanto la ragione può prescrivere. Per questo così affrettandosi fecero le mura, che doveano essere pe’ nemici inespugnabili, alte appena quanto bastasse; e non aveano ben disposte nel debit’ordine le pietre, non secondo la giust’arte costrutto il lavoro, e nemmeno i materiali ben uniti colla calce. Laonde parecchie torri non potendo resistere nè alle nevi, nè ai cocenti calori del sole, pel cattivo modo con cui si era fabbricato, in breve tempo sdruscirono. Questo era accaduto alle prime mura di Dara.
L’imperadore Giustiniano considerò seco stesso che i Persiani avrebbero fatto di tutto per rovesciare un’opera troppo ad essi infesta: che con tutte le loro forze l’avrebbero assaltata, niun’arte trascurando per riuscire nell’intento, e torri portate da elefanti, e rialti e macchine di ogni maniera adoperando; e che in fine, se alcun sinistro venisse a patire Dara, antemurale da quella parte di tutto l’impero, la repubblica ne avrebbe una scossa tremenda. Per tutte queste considerazioni deliberò di fortificare quella città.
E primieramente, siccome le mura, per quanto accennai, erano assai imperfette, e facilissime ad essere espugnate, volse tutto il suo pensiere a far che i nemici non potessero nè accostarvisi, nè romperle. Al qual effetto i merli delle torri restrinse con pietre, e li serrò in modo, che fra essi non restasse spazio se non quanto comporta una fenestrella, bastante a muover la mano per di là gittar dardi sugli assalitori. Aggiunse quindi alle mura un’altezza di quasi trenta piedi; ma non ne continuò la grossezza proporzionatamente, onde dal soverchio peso non ne patissero i fondamenti, e le mura crollassero: bensi rinforzate queste con un fabbricato di macigni, e fattovi girare intorno un portico, a questo soprappose altri merli: di modo che le mura vennero ad avere un doppio incastro dappertutto. Nelle torri poi tre luoghi v’hanno, da’ quali i difensori possono respingere gli assalti de’ nemici; perciocchè alla metà delle medesime pose de’ barbacani, ed altri merli vi aggiunse, sicchè il muro ivi ebbe un triplice congegnamento.
In quanto poi alle torri, che dissi in breve tempo aver patito, non ardì egli atterrarle, stando i nemici continuamente all’erta per approfittare di ogni occasione propizia, se alcuna parte facile ad attaccarsi, loro si presentasse: ma ripiegò nella seguente maniera. Lasciate codeste torri nello stato in che erano, fuori di ognuna altra certa opera costrusse di forma quadrata, forte e benissimo intesa; e le muraglie minaccianti rovina, con altro rinforzo assicurò; ed avendone opportunamente demolita una, detta la custodia, tutta di nuovo e saldamente la ricostruì, togliendo così ogni ragione di timore, che le deboli fortificazioni facevano nascere. Anche il muro esterno a proporzione rialzò, e vi condusse una fossa, non in foggia consueta, ma in altra particolare; e questo fece in brevissimo spazio: di che ecco la ragione.
La più parte delle mura è inaccessibile agli oppugnatori, perchè posta in luogo non piano, che favorisca le loro insidie, ma in pendìo sassoso, ed erto; dove nè far si possono cave, nè portar macchine. Dalla parte del mezzodì il suolo è molle, facile a scavarsi, e perciò adatto a’ lavori sotterranei, con cui penetrare dentro la città. Qui dunque egli fece la fossa, girante intorno a modo di mezzaluna, e di competente profondità e larghezza, entrambe le estremità congiungendone al muro minore; e la riempì d’acqua, onde a’ nemici riuscisse affatto insuperabile. Un altro muro minore pose di poi al margine esterno della medesima, ove in tempo di assedio debbono stare le sentinelle romane, assicurate dalle mura grandi, e dall’altro muro minore. Nell’intervallo in fine presso la porta che guarda l’Ammodio, evvi un gran rialto, da dove i nemici rotto il muro avrebbero potuto nascostamente entrare nella città; e questo spianò; e sì bene aggiustò il luogo, che tolse ogni mezzo di fraude nemica.