Degli edifizii/Libro primo/Capo I
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Traduzione dal greco di Giuseppe Compagnoni (1828)
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LIBRO PRIMO
CAPO PRIMO.
Di Santa Sofia.
Ne’ libri da me scritti sulla guerra, schiettamente e diligentemente narrai come da vilissimi caporioni, e da immensa ciurmaglia alzossi una volta gran sedizione detta Nika, contro Giustiniano Angusto. E perchè non dovesse dubitarsi, che contro Dio del pari, che contro l’imperadore, que’ furibondi ed esecrandi uomini eransi alzati, niun riguardo ebbero a mettere in fiamme la chiesa de’ Cristiani, dai Costantinopolitani chiamata di S. Sofia, così usando un titolo al nume supremo convenientissimo. E tanto sacrilegio permise Dio prevedendo quanto più splendidamente e magnificamente sarebbe stato quel tempio ristaurato. Fu dunque allora la chiesa convertita in un mucchio di cenere; ma non molto dopo Giustiniano Augusto la rialzò grandiosa e bella, a modo, che se alcuno presentato avesse a’ Cristiani il modello di quella che oggi vediamo, e domandato loro, se fosse ad essi piaciuto di vederla demolita, e secondo quel modello rifabbricata, io credo che su di ciò non avrebbero esitato punto a desiderare che fosse gittata a terra per vederla conversa in forma si meravigliosa. Adunque l’Imperadore non badando a spesa pose ogni suo pensiero alla nuova fabbrica, e chiamò a tal uopo artefici da ogni parte. Serviva alle sue idee, disegnando ogni cosa, e i lavori dirigendo degli artefici, Autemio tralliano, senza eccezione principe degli architetti ed ingegneri non solo del suo tempo, ma di quanti erano scorsi prima; e con esso lui era pure un altro, Isidoro di nome, nato in Mileto, uomo di singolare intelligenza, e veramente degno che alla esecuzione della grande opera Giustiniano Augusto se ’l chiamasse compagno. E certo è che in questo spiccò ad onor dell’Imperadore la provvidenza del Nume, il quale soggetti sì valenti a lui avea preparati per l’opera meditata; e meravigliosamente spiccò del pari l’acuto intendimento del Principe, che seppe fra tutti gli uomini dell’arte scegliere i veramente atti a corrispondere a sì alto pensiero. Così poi questa chiesa diventò quel prodigioso spettacolo, che apparisce, superiore alla capacità di chi la contempla, e alla fede di chi ne sente ragionare.
Elevata ad enorme altezza, e come nave ferma sulle ancore, questa chiesa vince tutti gli altri edifizii, e soprastassi alla città che adorna come la sua parte migliore, giustamente superba di vedersi entro il circuito d’essa sì alta, che da quella cima tutta chiaramente quanto è grande per ogn’intorno la medesima all’occhio de’ riguardanti si mostra. La larghezza e lunghezza sua è sì ben concertata che mentre l’una e l’altra è massima, nessuna può dirsi soverchia. Inesprimibile poi è il bell’effetto della sua apparenza; e sì netta e proporzionata, che in niun punto esce del giusto, in niuno manca, mentre intanto oltre ogni usato è magnifica, e nella sua vastità perfettamente per ogni verso corrispondente. Meraviglia è a dire lo splendore che mette, perciocchè non diresti ricevere essa tanta luce dal sole, che i suoi raggi nello esteriore ne batte; ma piuttosto che da essa medesima nasce quel vivo rifulgimento, tanta piena di lume la investe, e tanta da essa ne sorge. La fronte riguardante l’oriente, parte dell’edifizio in cui soglionsi celebrare i sacri misterii, è costrutta di questa maniera. Sorge di terra l’edifizio, non prolungato a linea retta, ma piegato insensibilmente e largamente in obbliquo; e alla metà si discosta, e in figura mezzo tonda, che i periti dell’arte dicono semicilindro, alzasi a perpendicolo. Il colmo della fabbrica termina in un quarto di sfera, e i tratti che più in alto si aggiungono, vengono a sostenere una certa forma di luna bicorne, il che fa che nello stesso tempo e si ammiri la vaghezza dell’opera, e si tema il disfacimento della costruzione, perciocchè quel pendere in aria non sembra sicuro; e quantunque pur sia fermissimamente saldo, mostra ai riguardanti un pericolo. Dall’una e dall’altra parte poi nel di dentro s’alzano dal pavimento, non in dritta fila, ma disposte in forma semicircolare, alcune colonne, sicchè sorgenti insieme, come in coro, vengono a sottostare a quella parte del fabbricato, che è fatta a mezza luna; e contra l’oriente è praticata la muraglia, in cui sono le porte del tempio. Di qua e di là queste colonne, e quanto soprastà ad esse sul disegno indicato, presentano un semicircolo; e in mezzo del tempio stanno quattro pilastri, due a tramontana, e due a mezzodì, gli uni in faccia agli altri, e tutti eguali, tra ogni due de’ quali sono poste due colonne. La costruzione di que’ pilastri è di catraci pietre, che diligentemente sovrapposte le une alle altre, gli artefici con molta abilità hanno insieme commesse; e que’ pilastri vanno tanto alti, che ti parrebbe vedere scogli distaccati da montagne. Sopra que’ pilastri s’aprono quattro arcate costituenti altrettanti lati, le estremità delle quali si congiungono due a due, e sull’apice di que’ pilastri si posano, intanto che le dette arcate stendonsi immensamente. Ma due di esse, quelle che al levante e al mezzodì son rivolte, stannosi tutte in aria; e le altre hanno di sotto un muro, ed alcune colonnette; e sostengono un altro membro dell’edifizio di forma rotonda, primo oggetto che il giorno sempre incomincia a vedere: imperciocchè io credo, ch’esso sia più alto della universa terra, e che poi cali a poco a poco, condotto con tale ingegno, che per le sue aperture la luce entra abbondantemente: cosa, che a parer mio può facilmente esprimere ogni uomo anche meno pratico. Alle arcate così, come si è detto, poste in quadratura frapponsi un’opera di quattro triangoli, di ciascheduno de’ quali l’ima parte stretta dalla unione delle arcate, viene a formare acuto l’angolo infimo: indi in alto dispiegandosi verso sè stesso per lo spazio intermedio, termina coll’edifizio, che di là si eleva in un circolo ben compassato; ed ivi fa gli altri angoli; e quel rotondo circuito è mirabilmente ornato di una cupola ampiamente circolare, sovrapposta in modo che per la sua leggerezza non mostra punto di appoggiarsi alla salda fabbrica, ma piuttosto di starsi per mezzo di un’aurea catena pendente dal cielo, e coprire così il luogo. Le quali cose tutte a tanta elevazione sopra ogni credere tra esse congiunte, le une dalle altre tenute sospese, le altre soltanto appoggiate alle parti prossime, costituiscono un tutto insieme perfettissimo; il quale non permette che a lungo l’occhio de’ riguardanti si fermi sopra un solo punto: perciocchè ciascheduna parte attira a sè lo sguardo, e quasi a gara invita a contemplarla. Per questa ragione gli spettatori vanno con perpetuo movimento volgendo gli occhi or sopra una parte, or sopra un’altra, non sapendo a quale dare la preferenza, nè quale più dell’altra ammirare; e più che cogli occhi, esaminando le cose colla mente, dai moti delle loro sopracciglia di tratto in tratto si conosce come sentono di non potere nemmen col pensiero capir l’artifizio; e restarsi sempre stupefatti di tante cose vedute, e per essi incomprensibili. Ma di ciò basti.
Alzata di tale maniera questa chiesa, Giustiniano Augusto e l’architetto Autemio insieme ad Isidoro vennero fortificandola con tutti i mezzi suggeriti dall’arte, i quali in vero io non so nè concepir colla mente, nè con parole esprimere. Solo una cosa dirò, onde s’intenda di quanta solidità fosse l’opera. Que’ pilastri, de’ quali feci poc’anzi menzione, non erano fatti come il rimanente dell’edifizio. Le pietre, che li componevano, eran quadrate, dure per natura, per arte lisce, e tagliate per modo, che quelle le quali erano destinate a formarne i fianchi, finivano in angolo, ed erano quadrate quelle, che stavano nel mezzo. Erano poi commesse insieme non colla calce, che dicon viva e non estinta, nè con bitume, di cui fece uso per pompa in Babilonia Semiramide, nè di altra cosa simile; ma sibbene con piombo, fatto squagliare, ed introdotto per tutti gl’interstizii, sicchè ogni spazio riempiendo tutta lega strettamente, com’entro una pasta, quelle pietre. Tale fu il metodo tenuto in costruire que’ pilastri. Venendo poi alle altre parti dell’edifizio, tutta la volta dorata alla sua bellezza propria aggiunge la magnificenza: i marmi impiegati nello splendore vincono l’oro stesso: da entrambi i lati girano due portici, i quali lungi dal rendere stretto il tempio ne accrescono piuttosto la larghezza, correndo essi intanto per tutta la lunghezza del medesimo, sebbene in altezza inferiori. Le volte di questi sono dorate anch’esse; ed uno serve per gli uomini, che vanno ad orare, l’altro per le donne, ma perfettamente eguali l’uno e l’altro tra essi; e questa eguaglianza medesima contribuisce a dare al tempio decoro, come la somiglianza ne dà eleganza e grazia. Chi poi descriverà convenientemente la parte superiore del gineceo? chi le molte galerie, e le sale messe a colonne? e delle colonne, e de’ marmi impiegati ad ornamento di tanta fabbrica, chi degnamente riferirà la varietà stupenda? Facilmente crederà tal uno di trovarsi in un giardino pieno di fiori, e vedere il bel color porporino degli uni, l’azzurro degli altri, e il verde amenissimo del sì diverso fogliame, e lo splendor brillante dell’insieme, dalla natura vagamente presentato, come fa il pittore con tanta varietà di tinte differentissime. Quando alcuno entra ivi per orare, sente subitamente, che non è quella opera di arte d’uomini, ma del Nume supremo; ed inalzando sua mente a Dio pargli spaziare pel cielo, pensando non esserne per certo lontano, e godersi di quella beata sede, a cui l’animo suo devoto aspira. Nè questa è la impressione, che sì magnifico spettacolo fa soltanto a chi lo contempla per la prima volta: ma si rinnova essa in ognuno quante volte vi ritorni, come se non lo avesse veduto mai. Perciò niuno mai ne fu sazio; e chi è nel tempio dilettasi di quella vista gratissima; e chi n’esce, non cessa di parlarne, sempre più meravigliato. Nè vale poi dire delle preziose suppellettili da Giustiniano Augusto donate a questa chiesa: chè l’oro, l’argento, le gemme annoverarne particolarmente sarebbe troppo lungo discorso. Da una cosa sola potranno i lettori congetturare del resto; ed è questo, che il Sacrario del tempio, ad ognuno fuorchè ai sacerdoti inaccessibile, detto l’Altare, ha quaranta mila pesi d’argento.
Per mettere fine alle cose leggermente tocche, e in brevi parole comprese, che le più degne sono di essere accennate, dirò, che Giustiniano Augusto edificò la chiesa Costantinopolitana, comunemente chiamata la grande, non solo spendendo quanto occorreva, ma impiegandovi in oltre l’ingegno suo, ed ogni studio della sua mente, siccome sono per esporre. Di quelle arcate, delle quali feci menzione, e che gli architetti dicono Lori, quella d’incontro al levar del sole, stavasi costruendo, e non istretta per anco nel mezzo aspettava l’ultima mano, quando i pilastri, su cui posava, cedendo al troppo peso della mole, improvvisamente additando una scompaginatura, annunciarono imminente rovina. Autemio ed Isidoro atterriti del caso, ne avvisano l’Imperadore, non isperando alcun sussidio dall’arte. L’Imperadore, non so da quale ispirazione animato, e credo celeste; giacchè egli non sa di meccanica; ordina che immediatamente si compia la curvatura dell’arcata, dicendo che questa tenendosi ferma per le sue proprie forze non avrà più bisogno de’ sottoposti pilastri. E se io non affermassi cosa pubblicamente attestata, il mio racconto terrebbesi senza dubbio per puro effetto di adulazione, e il fatto per incredibile. Ma come assai testimonii vi sono, nulla può trattenermi dall’esporre quanto ho incominciato a dire. Gli artefici adunque fecero secondo il comandamento avuto; e l’arcata spinta all’alto si stette salda ed intatta, essendosi comprovato col fatto la verità del consiglio. Eseguito poi ciò, alle arcate che guardavano il settentrione e il mezzodì, avvenne che elevatesi a sì grandiosa altezza, ciò che sottostava rimaneva oppresso dal peso, a tanto che dalle soggette colonne distaccavasi il cemento, come se fossero state per forza d’alcuno violentemente compresse: di che spaventati gl’ingegneri furono di bel nuovo all’Imperadore esponendogli l’avvenuto; ed egli colla stessa acutezza usata prima, all’accidente rimediò nella seguente maniera. Ordinò egli che le somme parti della fabbrica soccombente, e attigue alle arcate, immantinente si demolissero; ed assai dopo, quando la curiosità fu interamente tolta, le fece rimettere. Il che eseguito l’edifizio ottenne la necessaria solidità; nè manca all’Imperadore la testimonianza del fatto.