Capitolo I. D'Eva

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Giovanni Boccaccio - De mulieribus claris (1361)
Traduzione dal latino di Donato Albanzani (1397)
Capitolo I. D'Eva
Prologo II


DOVENDO io scrivere per che virtù sono conosciute le famose donne, non parrà cosa indegna di pigliare lo cominciamento da chi fu madre di tutti gli uomini, Eva. La quale fu, senza dubbio, la prima madre, e fu gloriosa di magnifiche virtudi; perchè ella non fu prodotta in questa faticosa valle di miserie, nella quale tutti noi altri uomini nasciamo a fatica, nè fu fabbricata con quello martello, nè con quella incudine che sono le altre in questa vita, nella quale ella non venne debole piangendo lo peccato di sua natura, come vengono gli altri. Ma avendo l’ottimo Fattore di tutte le cose formato Adamo colla propria mano del fango della terra, la qual cosa non avvenne d’alcun altro poi, e avendolo posto nel Giardino dei diletti, il quale fu chiamato poi Campo Damasceno, e avendo fatto addormentare quello d’un piacevole sonno; per artificio conosciuto da lui solamente trasse quella dal fianco di quello dormente compiuta, ed era di compagnia di marito, allegra per la vista del dilettevole luogo, e fecela immortale donna di tutte le cose a compagnia dell’uomo, che già era desto, e da quello eziandio fu chiamata Eva. E che maggior cosa, o più gloriosa potè mai avvenire ad alcuno in sua natività? Ancora possiamo pensare quella maravigliosa per la bellezza del corpo; perchè non è fatta niuna cosa per la mano di Dio, che non avanzi l’altre in bellezza. E benchè questa bellezza perisca per la vecchiezza, e ancora ella caggia per piccola mutazione d’infermitade col mezzo del fiore di nostra etade; nondimeno perchè le donne la noverano tra le loro virtudi, perchè ne hanno1 gran nominanza, indiscretamente per lo giudizio degli uomini, non ho posto questa d’avanzo tra le cose che fanno famose quelle, procedendo la prova in questo libro. E sopra queste cose quella che fu fatta del Paradiso reina per ragione di sua creazione e di sua abitazione, fu vestita di uno splendore non conosciuto da noi, infino a che ella volentieri usasse col suo marito i diletti di quel luogo. Ma lo nimico, invidioso di sua felicità, era maligno conforto le mise nell’animo che ella poteva arrivare a maggior gloria, se ella facesse contro una legge sola, che l’era imposta da Dio. Al quale per una leggerezza2 di femmina credendo, più che non abbisognava a lei ed a noi, e pensando mattamente montare a più alte cose, innanzi che facesse altro, con lusinghevole conforto trasse a sua volontà lo debole marito. E facendo contro alla legge con presuntuoso ardire, mangiato del pomo dell’albero, per lo quale si conosce lo bene e lo male, condussero sè e tutta sua schiatta per lo tempo che dovea seguire, di dilettevole patria d’eterno riposo in inansiosa fatica, e miseria, e morte, tra gli spini, e le zolle, e le pietre. E già essendo fuggita la splendida luce, della quale egli erano vestiti, furono ripresi dal loro turbato Creatore, e, vestiti di foglie d’alberi, dal luogo dei diletti vennero bandeggiati nei campi di Ebron. In quel luogo la nobile donna, e famosa per le predette cose, secondo che è creduto da molti, trovò filare alla rocca. E avendo più volte provato il dolore del parto3, e quelli i quali tormentano l’animo colla morte dei figliuoli e dei nipoti, non dico il freddo, il caldo, e altre cose, stanca delle fatiche arrivò alla vecchiezza innanzi che ella morisse.


Note

  1. Nel Codice Cassinese leggesi canno: all’articolo le abbiamo sostituito la particella ne cha meglio risponde al testo latino: plurimum ex ea gloriae consecutae sunt.
  2. Cod. Cass. allegrezza. Betussi nella sua Traduzione ha: leggerezza. Test. Lat. levitate foeminea.
  3. Cod. Cass. e chogli quali etormentano lanimo chollamorte, ecc.