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melodiosa non comune. Molti di questi «Nuovi Canti», i più belli, non erano ignoti agli ammiratori del suo ingegno: essi ricordano di aver esultato scoprendoli nelle riviste o nei giornali, giudicandoli gioielli.

Ora, rilegati tutti insieme, non sembrano più gli stessi. Perchè? Forse è la monotonìa che li sbiadisce; forse ciò che formava l’intimo pregio d’ognuno: una purezza radiosa e tranquilla, diffonde sul gruppo troppa pace, la bianca pace delle altezze, la pace delle cose morte.

Alle volte, qua e là, da qualche iridescenza più vivace, da qualche raggio saettante, da qualche luminosa Morgana si è tratti a sperare di sentirsi riscaldati da un’ondata di sole meridiano; d’udire un’eco, un singhiozzo, una voce, e si trepida nell’attesa del miracolo desiderato.

Invano; le iridescenze si cancellano, le saette dei raggi illanguidiscono, il giorno tramonta nel silenzio fresco e vergine d’un mondo novello ancora inabitato. Giovanni Marradi nel suo grandioso ed alto panteismo non aspira che ad identificarsi coll’azzurro del suo cielo e del suo mare, coi suoi colli boscosi, coi suoi giardini fragranti, colle sue foreste, colle sue primavere di cui nulla turba il perpetuo sereno, e in cui vuol cullarsi e fantasticare colla superiorità olimpica d’un dio. Quindi è naturale che le tempeste, gli uragani, le lotte, le tenebre del mondo dei viventi gli giungano affievolite e sfumate come un’eco, come una nebbia, come un sogno. Ed egli canta così senza palpiti, senza lagrime, senza dolore e senza gioia; canta librato in alto simile all’allodola, tutto assorto nel suo gorgheggio sapiente e melodioso.

Tra questi «Canti» mi sembrano bellissimi i sonetti primaverili intitolati «Matelda»; quelli compresi sotto l’unico titolo di «Sabato Santo» in cui