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ingannevole come la scienza dei romanzi di Giulio Verne coi quali questo di Bellamy ha un’aria di famiglia. Nell’anno duemila non vi saranno più poveri, nè oziosi, nè malfattori, nè nemici, nè avari, nè tiranni, nè potenti. Una grande armata industriale, in cui tutti indistintamente dovranno servire per il loro paese fra il ventunesimo e il quarantacinquesimo anno, livellerà tutte le classi e darà a tutte l’agiatezza, il lavoro, la felicità operosa, una serena tranquillità. Dopo i quarantacinque anni ognuno sarà libero di dedicarsi all’arte o alle occupazioni preferite, fino alla morte, che con la fatica così equamente distribuita e l’igiene imperante, colpirà solamente nell’estrema vecchiezza. Non si parla di ospedali; le prigioni sono sparite, poichè è sparito il dèmone cattivo sobillatore: la miseria — il germe della corruzione: l’oro. Il danaro non ha più valore, è lettera morta, non si compera e non si vende più; non vi sono più stipendi nè patrimoni. Un libro di credito che ogni cittadino tiene dallo Stato fa le veci del metallo e della cartamoneta; non più dunque interessi privati, piccole industrie, case bancarie, speculatori, affaristi; ogni proprietà, ogni commercio sono fusi in un’unica produzione nazionale ugualmente distribuita da un Presidente che diventa un fornitore.
Ai miei occhi, agli occhi dei profani, questo immane meccanismo di ordinamento sociale descritto minuziosamente sbalordisce, per la sua apparenza di larga semplicità; una semplicità così elementare, così logica, che a tutta prima fa stropicciare gli occhi ed esclamare: «Ma dunque perchè questo non sarebbe possibile?» Poi, ahimè! appena ci si avvicina un poco, anche gli inesperti del grande e doloroso problema, s’accorgono del miraggio. L’edifizio è vasto e