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ed invecchiati sotto il peso delle famose ruine. E quando sento taluni, che non solo vorrebbero rivendicarci, come preziosa e vivente eredità, la superbia per cui Roma fu grande e odiata, ma che pur vanno ristuzzicando colla storia passioni e diseppellendo nomi di parte, su cui da cinque secoli pesa la maledizione dell’Alighieri e la condanna della seguace sciagura, m’addolora il dubbio, che i popoli per ringiovanire abbiano bisogno, come per le anime immaginava Pitagora, di bere il provvido oblio. — Ma poi m’assicura il pensare, che davanti alla storia vera si dissiperanno codeste storiche mitologie; le quali vorrebbero ricondurci, senza la scusa dell’inesperienza, alle illusioni per cui gli avi nostri credevansi solo popolo civile, e condannavano di barbarie la robusta, snella e semplice gioventù d’altre genti. E perchè codeste teorie, che, capo volgendo l’ordine della tradizione, sovrappongono il passato al presente, e codeste letargiche lusinghe di un’arcana predestinazione, le quali perturbano ogni ragione storica, di niun’altra cosa più volentieri si giovano, che della memoria degli uomini miracolosi, per rispetto ai quali l’Europa tiene ancora in qualche onore il nome italiano; è a desiderarsi che il culto de’ nostri genii si riduca a ragionevole ossequio, ed offra piuttosto esempi imitabili a tutti, che argomento di puerile e scoraggiata meraviglia o di misteriose speranze.

Certo intorno alla storia di sommi Italiani assai bene potrebbe ordinarsi la storia dell’italiana civiltà; e ne parrebbe forse più viva, più vera, più popolare; e nel cercare come e perchè ci crebbero que’ gloriosi, si risponderebbe assai opportunamente a chi vitupera la natura o gli uomini d’Italia; nel cercare come e perchè quasi tutti i nostri genii vissero infelici, profughi, irosi a’ loro tempi, pietosi indarno a’ tempi