Cosmorama Pittorico (anno II - n. 15)

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1836 Indice:Cosmorama Pittorico 1836 15.djvu Cosmorama Pittorico (1836 n.15) Intestazione 26 giugno 2012 100% Biografie

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COSMORAMA


PITTORICO.




N.° 15. MOLTO per POCO 1836.






PIAZZA DEL DUOMO A MESSINA.


La piazza del Duomo di Messina rappresenta la storia di quella città, che sofferse le più straordinarie vicende. La Cattedrale che le si alza di fronte è un curioso monumento dell’architettura rinascente in Italia nel secolo duodecimo, unitamente al gusto moresco importato in Sicilia dagli Arabi. Essa fu eretta nel 1197 dal conte Ruggero di Sicilia. La facciata di questa chiesa è divisa in tante zone, o fascie a linee orizzontali, di marmi a vario colore che le danno un carattere altamente pittoresco. Tre porte danno accesso al tempio; la più grande di esse è sormontata da archetti a sesto acuto, da colonnette, da gugliette, da nicchie con statue e da mille ornamenti di genere moresco. La parte superiore della facciata, unitamente alla torre quadrata che ne occupa una porzione, venne distrutta dal terribile tremuoto del 1783 che ridusse Messina a cumuli di rovine.

L’interno di questa chiesa è un misto di tutti i generi di architettura. Ivi trovi confusa l’architettura romana colla gotica, la moresca coll’italiana, l’orientale colla barocca. Anche i musaici e gli ornamenti di cui sono fregiate le pareti presentano saggi di ogni maniera di stile. Fra le pitture sono pregiate quelle del Quaglia, e fra le sculture hanno gran lode i bassirilievi del Gaggini contemporaneo di Michelangelo, L’altar maggiore è straricco di bronzi, di pietre fine o di gemme. La navata di mezzo è sorretta da ventisei colonne di granito egizio, che sono più begli avanzi di antichità che presenti Messina, Gli illustratori di questa chiesa credono che queste colonne abbiano appartenuto ad un antico tempio pagano ― e non siano già provenute da cave egizie, ma da sicule miniere.

Il sotterraneo di questa cattedrale è anch’esso [p. 114 modifica]ricchissimo per bronzi, per musaici, per pitture e per ogni genere di ornamenti preziosi. Appartengono però questi fregi al secolo del mal gusto.

Uscendo dalla cattedrale presenta la piazza un bellissimo colpo d’occhio. Presso alla chiesa sorge un palazzo di moderna architettura fatto erigere dal re Ferdinando per collocarvi i tribunali e la pubblica biblioteca, come lo indica l’iscrizione latina posta sulla facciata, la quale dice: Hic Themidis lances, hic doctæ Palladis ædes.

Quasi in faccia alla porta maggiore del Duomo s’alza su un basamento fregiato da bassivilievi la statua di Don Giovanni d’Austria, vincitore della celebre battaglia di Lepanto. Un altro bell’ornamento di questa piazza e la pubblica fontana. I vivi zampilli delle sue acque cadono a pioggia da un elegante bacino sostenuto da cariatidi di buono stile, e spargono nella stagione estiva una cara frescura.

Tutta questa unione di monumenti rende la piazza del Duomo di Messina un vero luogo incantevole: i viaggiatori non sanno staccarsene senza un mesto rimpianto.


UNA FIERA INDIANA.

Durante le escursioni rimarchevoli che il Capitano Skimer ha compiuto per le diverse contrade dell’India Britannica, egli si rese un giorno alla fiera d’Hurdwar, che ha luogo ciascun anno ai primi di aprile, celebre per l’attività che ivi regna, e pel pellegrinaggio degli Indous che si rendono in folla in questa città, appo la quale il Gange, scendendo dall’elevate montagne, donde ha ii suo nascimento, comincia un corso maestoso di 1200 miglia. Sarebbe cosa ardua, dice il capitano, il descrivere in succinto la scena singolare che presenta ai nostri sguardi la fiera d’Hurdwar, alla quale gli Indiani accorrono in numero incalcolabile per abbandonarsi nello stesso tempo a pratiche di pietà e ad atti temporali di commercio. In questa immensa riunione, veggonsi individui d’ogni età, d’ogni sesso, d’ogni colore, d’ogni religione e di costumi variati all’infinito. È un’assembla di quasi tutte le varietà della specie umana che espone in vendita i prodotti naturali e le manifatture delle più remote regioni. Tutti i negozianti parlano, gridano, discutono, e fanno vedere le loro mercanzie nel nativo linguaggio; è un confuso frastuono di suoni discordanti, che potrebbe porgere una chiarissima idea della così detta confusione delle lingue della torre di Babele. Là, sono esposti destrieri di razze diverse e di tutte le parti del globo, elefanti, camelli, dromedarii, bufali dalle enormi corna, armenti di vacche, di pecore, e di capre poste in bell’ordine, le une presso le altre; qui sonovi cani di tutte le grossezze, gatti, scimie, leopardi, orsi, tigri, antilopi, dalla statura del cavallo fino a quella dell’agnelletta.

Più lungi, tu vedi in mostra schalls del Cachemire, balle di cotone delle Indie, stoffe di lana d’Inghilterra; immensi bazar offrono a tuoi sguardi il corallo del Mar rosso, l’agata di Guzurate, le pietre preziose del Ceilan, le spezierie dell’Isole Olandesi, il balsamo dell’Arabia, l’assa-fetida, e l’essenza di rose della Persia, che i naturali del paese vi presentano, e vi eccitano a comperare. Infine, voi vedete a fianco d’una serie elegante d’orologi francesi, gli intingoli della China, i manicaretti d’Inghilterra, e una varietà infinità d’oggetti di toletta e di profumeria di Bond-Street, e della strada S. Onorato. Nel mezzo di quest’immenso mercato, i jockeis ed i cozzoni provocano la vostra curiosità con esercizj che servono a far pompa dell’agilità, della forza, della docilità degli animali che espongono. Poco lungi, elefanti e dromedarii, si danno, alla voce del loro padrone, ad una moltitudine di piccole gentilezze, per provarvi la cura colla quale vennero educati. Infine, un Persiano v’importuna, e vuole farvi comprare a forza una superba coppia di gatti d’Angola del suo paese. Generalmente, i venditori vi chiedono dieci volte almeno il valore delle loro mercanzie.

Ma, in mezzo al conflitto d’interessi mercantili e fra il tumulto della fiera, gli Indiani non perdono mai di vista l’oggetto principale di loro riunione ad Hurdwar, e vedonsi ad ogni istante turbe di pellegrini dirigersi al ghaut, magnifica scala di 100 piedi di larghezza che conduce alle sponde del Gange, onde ivi compiere le cerimonie prescritte dalla religione; e tale è allora il fervore e la pietà ch’essi mettono nelle loro abluzioni, tale l’obblio o l’indifferenza per le cose di quaggiù, che durante queste divozioni i due sessi s’avvedono a malapena d’essere mischiati e del tutto spogli di loro vestimenta. In questo istante il ghaut offre uno spettacolo veramente curioso e pittoresco. Da un lato vedonsi montati su elefanti, Europei, che la curiosità attira da lontano per essere testimonii di questa religiosa cerimonia, dall’altra, Bramini unicamente occupati a riscuoter il tributo sui devoti; là mendicanti espongono quante piaghe ed infemità desolano ed affliggono l’umana specie; nel centro della folla, missionari cristiani distribuiscono con zelo bibbie impresse in venti differenti idiomi; finalmente una processione continua di pietosi Indiani che montano o che scendono il ghaut, che si spogliano de’ loro abiti o si rivestono, o che abbandonansi con divozione sincera alle pratiche di religione.


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LE STELLE FILANTI.

Mentre i romanzieri stanno occupandosi della luna, gli astronomi si occupano di qualche cosa di meglio. Eglino stanno osservando e determinando le leggi astronomiche delle periodiche apparizioni delle così dette stelle filanti.

Le stelle filanti differiscono dalle stelle cadenti in questo, che le prime compajono sull’orizzonte a modo di tante lucide gemme che fanno, a guisa dei bolidi, un celerissimo volo e scompajono senza spegnersi, mentre le stelle cadenti o fuochi fatui, cadono per lo più a modo di corpi gravi, e giunti presso alla terra si dissipano disfacendosi. Le Stelle cadenti sono fortuite accensioni che avvengono nell’atmosfera e le stelle filanti son veri globi che appajono e scompajono a modo delle comete, eseguendo un periodico viaggio che si potrà forse col calcolo determinare.

È stato osservato, dice Arago, che dai dodici ai tredici novembre, compajono quasi tutti gli anni vere pioggie di stelle filanti, che ora si veggono in una parte ed ora nell’altra del nostro globo. Dalle nove della sera del 12 sino all’alba del 13 novembre dell’anno 1833 fu veduta lungo le coste orientali dell’America settentrionale del golfo del Messico sino ad Halifax, una di queste pioggie di stelle filanti. Esse occupavano tanta parte di cielo che non si potevano enumerate che in via di approssimazione. Un astronomo di Boston si provò a contarle sul far del mattino, quando s’eran fatte minori di numero, e ne noverò 650 in 15 minuti e in una zona circoscritta al decimo dall’orizzonte coperto da queste stelle. E fatto un computo comparativo, egli calcolò il numero di 34,640 stelle filanti per ogni ora, e 240,000 almeno per tutte le ore in cui durò il fenomeno.

Questi asteroidi, per servirci dell’espressione già usata da Herschell partirono da un solo punto del cielo, dalla costellazione del Leone, e poi si allargavano a pioggia e s’allontanavano con una celerità apparente di trentasei miglia per ogni minuto secondo. La direzione di queste stelle pareva diametralmente opposta al movimento di traslazione della terra nella sua orbita.

Questa pioggia di stelle non è cosa nuova. Nella stessa notte del 12 al 13 novembre un’apparizione simile fu veduta nel 1799 in America da Humbold, nella Groelandia dai fratelli Moravi ed in Germania da quasi tutti gli astronomi. Nell’anno 1803 da un’ora dopo mezza notte sino alle tre, le stelle filanti si fecero vedere nella Virginia e nel Massachussets in tanto numero che parevano razzi d’artificio. Nell’anno 1777 Messier racconta di aver veduta passare sul disco solare un numero grandissimo di globetti neri che egli prese per asteroidi che passavano fra noi ed il sole. Nella notte del 12 al 15 novembre 1831, il comandante del brick il Loiret M. Berard, vide navigando nel grande Oceano, un numero considerevole di stelle filanti di una grande dimensione. Uno di questi asteroidi apparve al zenith e fece un gran giro dall’est all’ovest lasciando una striscia di luce tanto larga, quanto mezzo il diametro della luna, e presentando i settemplici colori dell’iride. La sua traccia durò dieci minuti.

Nella notte del 13 novembre 1835 una stella filante fu veduta a Lilla in Francia; essa brillava più del pianeta di Giove e lasciò sulla sua via una pioggia di faville come un razzo artificiale. Queste periodiche apparizioni ci rilevano un nuovo mondo planetario, che a confronto del gran sistema de’ pianeti può dirsi un vero mondo microscopico, che è pur meritevole di tutta l’osservazione dei dotti. Noi diamo pubblicità a questa preziosa scoperta delle stelle filanti, perchè si abbia cura ne’ varj punti abitati, di esplorare ogni anno nella notte del 12 al 13 novembre l’apparizione di questo celeste fenomeno per istudiarlo ed illustrarlo. Varrà meglio il badare a queste stelle che piovon luce, di quello che tener dietro alla luna dal cui disco ischeletrito ora non piovono che menzogne.


VIRTÙ DI ALCUNE DONNE CIPRIOTE E GENOVESI.

Nel 1570, Mustafà mosse per prendere ai Veneziani l’isola di Cipro: fu ne’ Turchi la più feroce barbarie, fu invece negl’isolani devoti alla repubblica veneta, un grande coraggio e prodigi di virtù: le donne di Nicosia e di Famogosta si posero coi soldati a difendere la loro città, ma fu invano. Nicosia cadde, e perirono in un sol dì per le mani dei turchi 10,000 italiani; altri furono fatti prigionieri e imbarcati per condursi in Asia. Fra questi sgraziati vi ebbe una gentildonna, la quale dolendosi altamente, non già della servitù, ma del disonore a cui era prossima, mentre era condotta ad Alessandria, pensò di morire altamente; addocchiò nella nave dov’era la munizione, ed animosamente vi diede fuoco: la nave all’impeto della polvere scoppiò, e la donna perì co’ suoi oppressori.

Forse è troppo disperato questo coraggio della animosa Cipriotta: poterono prestare invece più utile servigio alla loro patria, Genova, due vedove generose, Anna e Veronica Spinola. Allorchè pericolava la loro città nel 1672, in una guerra che le movea contro la Savoja, e si stava facendo provvigioni per difenderla, la prima portò in dono ai padri 2,000 scudi d’oro, e l’altra fece a proprie spese una leva di soldati.


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CONVOGLIO DI WAGON TRATTO DA UNA MACCHINA A VAPORE


PONTE DEL SOIRON LUNGO LA STRADA DI FERRO DA SANT’ETIENNE A LIONE


LE STRADE DI FERRO

I nostri padri si ricordano quando il viaggio d’un trenta miglia era impresa d’un giorno. Ora una sdruscita e zoppa vettura può correre doppio cammino, mercè la solerzia onde vennero migliorate le strade. Tuttavia questo è poco a paragone della precipitosa velocità con la quale immani convogli trasvolano sulle strade si ferro, o per forza di cavalli o di macchine a vapore, e talvolta per la sola inclinazione del piano.

Nessuno ignora quanti incappi ingombrino le comuni strade, quanto ostacolo facciano alla rapidità dei trasporti. Fra questi inciampi è principalmente il moleggio, a cui dove mancava la sodezza del terreno, si cercò di riparare o con lastricati di pietre o con tavolati di quercia che furono in appresso muniti con lastre di ferro. Tale era lo spediente usato da un secolo e mezzo in Inghilterra, dove nel 1767 agli assiti ferrati furono sostituite le ruotaje di ferro fuso e nel 1805 quelle di ferro battuto, siccome più compatto, meno fragile e quindi più durevole del primo.

Le strade di ferro, delle quali molte esistono in Francia e nel Belgio, ma che si vanno moltiplicando in Europa pei vantaggi che offrono al commercio, sono costrutte secondo tre differenti metodi. — O le ruotaje sono piane alla foggia di quelle di granito che veggiamo nelle nostre città Lombarde, ma di queste ve n’hanno assai poche; — o sono solcate affinchè ai solchi s’attengano le ruote, e queste sono pochissime, perocchè i solchi trovandosi facilmente ingombrati viene meno lo scopo principale dell’opera. — Il metodo più generalmente adottato è quello delle ruotaje prominenti, solidamente impostate e terminate in orlo leggermente convesso a cui s’adatta il cerchio delle ruote dei carri destinati a percorrere quelle strade, che dagli Inglesi chiamansi col nome proprio di Wagon. Tra queste ruotaje vanno incastrate le ruote per un risalto del margine interno dell’incavatura del cerchio loro.

Le principali strade hanno doppie file di ruotaje per l’andata e la venuta dei carri, ma sì in queste, dove è angustia di spazio, come quelle di secondo ordine, la fila delle ruotaje è semplice; ed affinchè i [p. 117 modifica]carri che vanno e vengono non s’impaccino tra loro, vi hanno qua e là delle ajuole semicircolari, entro le quali volgesi parte delle ruotaje, ed uno dei carri si ferma per lasciare libero il passaggio all’altro.


INGRESSO D’UNA GALLERIA DELLA STRADA DI FERRO DA SANT’ETIENNE A LIONE.


Un solo cavallo basta a più carri; ma le macchine mosse dal vapore sono le forze di preferenza usate principalmente in Inghilterra. Una di questa trascina con una velocità incredibile trenta e più wagon carichi di merci ed attaccati l’un l’altro in lunga fila. Tuttavia è necessario che la strada sia orizzontale o poco meno; imperrocchè altrimenti la resistenza del peso proprio della macchina ne eliderebbe a forza. Quindi a mantenere il livello, dove il terreno si avvalla, la strada s’innalza o sopra un terrapieno a modo d’argine, o sopra un ponte, principalmente quando s’incroci con un’altra; dove invece il terreno si eleva in altura, quella o lo fende o lo trapassa con gallerie tagliate nella roccia.

Con tutto ciò riesce assai spesso impossibile riunire due punti lontani per una linea orizzontale. Allora la strada viene divisa in tratti di differenti altezze ed i carri si fanno ascendere dal tratto inferiore al superiore per un piano inclinato, sul quale vengono rimorchiati, mediante una fune, da una macchina locomotrice fissa nel punto più eminente. In Francia la strada di ferro della Loira al Rodano comincia sopra un piano più elevato di quello a cui succede.

Però s’erge in quel punto la gigantesca leva di una gru, la quale solleva per aria le vetture e le depone sulle ruotaje. Quel singolare momento, dice Dumas, accennando a questo volo aereo, in cui i viaggiatori si veggono abbrancati dalla gru e dondolati per aria, non è certo un momento molto lieto: le donne gridano, gli uomini urlano, ma poi ogni paura cessa ed uno scroscio di risa universale è il segnale che il terrore è presto passato.

Le strade di ferro sono costosissime per le spese di prima erezione. Queste spese o riguardano il prezzo del metallo lavorato, e si possono calcolare a 70,000 franchi ogni lega postale per due ruotaje solamente ii doppio per due ordini di ruotaje; o riguardano l’acquisto del terreno e le opere di costruzione, sebbene variabilissime per molti rispetti, si possono valutare tra i 200 e 400,000 franchi per un doppio ordine di ruotaje, ed un terzo meno per un ordine semplice. Sicchè in complesso il costo medio d’una strada di ferro sale approssimativamente alla ingente somma di 370,000 franchi per ogni lega di posta. Quella da Sant’Etienne a Roanne, che certo fu una delle meno dispendiose, costò 92 franchi e 85 centesimi per ogni metro.

Tuttavia si hanno incalcolabili compensi e nella celerità e nella economia dei trasporti. In queste strade infatti è minimo l’attrito delle ruote, attrito che sulle strade comuni è cagione di tanto dispendio di forza locomotrice e di tempo. Quindi la celerità del viaggio è massima perchè sta in proporzione dell’agevolezza del commino; e massima l’economia, vale a dire, minima la spesa dei viaggi, perchè questa risponde alla quantità della forza e del tempo che vi si impiegano, ed al consumo dei mezzi di trasporto che pure sono minimi.

Pertanto le strade di ferro sarebbero esse convenienti in Lombardia? Non esitiamo di rispondere colle parole dell’egregio nostro amico Dott. Giuseppe Sacchi: «In Lombardia, e per la sola Lombardia, no: se vi fosse una grande strada destinata a mettere in comunicazione i due mari, il Mediterraneo e l’Adriatico, venendo dal porto di Genova e sboccando a Fusina presso Venezia, se un’altra ve ne fosse destinata a far comunicare un gran regno con un grande impero, come la Francia e la Germania, allora si aprano pure anche fra noi strade di ferro: se no atteniamoci ai nostri canali, alle nostre ottime strade, che sono le prime di tutta Europa, e lasciamo il pensiero delle strade di ferro ai nostri nipoti, nel caso che si dessero a svolgere l’industria del paese assai più che non è ai dì nostri.»


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LE VESTI DELLE ANTICHE ROMANE.

Le femmine dei primi Romani portavano sulla nuda pelle la toga, comune allora ai due sessi; ma ben tosto fu rimpiazzata dalla tunica.

Presso quasi tutto le antiche nazioni, le donne usarono la tunica, che tenea luogo di camicia. Prima di lana, in seguito di lino, la tunica ricevette siccome la toga nomi diversi, secondo le differenti foggie, o gli ornamenti che vi aggiugnevano.

La tunica, presso i Greci ed i Romani, consisteva in un lungo quadrato, cucito dai bordi inferiori fino quasi all’altezza delle coscie. Le donne fermavano la loro tunica sulle spalle col mezzo d’una fibula, specie di maglia o di bottone. Queste fibule, d’una grossezza più o meno considerevole rappresentavano un animale, una lira, o qualunque altro oggetto, ed erano d’oro o d’argento.

Le forme della tunica variavano all’infinito. La tunica, d’una stoffa candida e leggiera, scendeva fino a talloni, e montava sì alto che copriva tutto il petto, nè lasciava scoperto che il viso.

La civetteria ridussela in modo da lasciare a nudo il collo; la vanità ornolla di ricami e di fiori; il capriccio vi adottò un lievissimo mantelletto, e la cinse alle sue estremità, alla gola, alle maniche, di frangie, donde venne forse l’idea dei collari e dei manichetti. Le frangie, che in origine forse altro non erano che i lunghi peli delle pelliccie, e il cui uso sembra derivare dai popoli Orientali, pare, osservando le antiche pitture, essere state in grande favore appo le femmine Greche e Romane.

Le maniche della tonaca, lunghe e strette, discendevano qualche volta fino al gomito, e spesso fino al pugno: sovente non erano punto cucite.

La tonaca dorica, diversa in questo dalla tonaca ionica, non avea maniche; fermavasi alle spalle con fibbie, ed era il vestimento più in uso nella Grecia. L’abbigliamento delle donne Israelite era la tonaca senza maniche simile a quella delle doriche.

Presso tutti i popoli dell’antichità che fecero uso della tonaca, le donne serravanla al petto od alle reni con una cintura.

Le cinture erano di foggie diverse e di diverso colore. Semplici, o con frangie o denti di lupo, qualche volta erano adorne di ricami e di piastre di metallo; chè allora non conoscevasi nè laminatojo nè filiera, e contentavansi di ridurre l’oro a lamine sottilissime sotto il martello. Le larghe cinture (stropheion) che le donne greche ponevano al di sotto del collo, loro serviva di riporre le lettere ed i presenti degli amanti. Presso le donzelle dei Galli e dei Germani le cinture erano un oggetto di lusso; esse erano di seta, d’oro, o d’argento.

Le vesti delle romane patrizie, consistevano in una tonaca (stola) con un orlo rovesciato (iustita), o formante coda ornata d’un aureo nastro; spesso l’adornavano d’una fascia di porpora (clavus) più o meno larga, dividendo così coi Senatori Romani l’onore del Laticlavio. I bordi che le femmine greche e latine aveano sulle loro vestimenta erano soventi volte dipinti sulla stoffa, oppure ricamati; ma, più di frequente, erano fascie di porpora, staccato dall’abito, e che vedeansi a parte; alcune rappresentavano le ondulazioni del mare.

Sulla tonaca le donne del Lazio gettavano un mantello larghissimo, appellato palla; questi due vestiti erano il loro attributo, e distinguevansi così dalle femminette della plebe.

La palla, somigliante a un ampio schall, era per le femmine ciò ch’era per gli uomini la toga e la pretesta.

Le patrizie spiccavano nell’arte di ben indossare la palla; quest’arte consisteva nel cingersene la persona senza scompigliarla, nel dare alle pieghe una elegante composizione, nel lasciarla scendere fino al garretto, senza strascinarla sul suolo, e in modo da lasciar apparire il prezioso bordo della tunica in tutto il suo splendore. Un lembo di questo mantello passava sotto il braccio diritto, che, siccome la spalla dritta, rimaneva a nudo. L’altra lembo era gettato con grazia sulla spalla sinistra, ch’essa copriva, siccome il braccio sinistro fino alla mano, colla quale sollevava la palla.

Appo i Greci, le donne andavano velate da un mantello cortissimo (hemi-diploide); composta di due fascie, e fermato sulle spalle. Il peplo era l’abito più lungo; era l’indumento delle vergini donzelle e delle Divinità.

Il peplo formavasi di due pezzi di stoffa lieve e finissima, dei quali l’uno, quello posteriore, era più lungo di quello davanti, e quasi strascinantesi. Il peplo non avea maniche, era sempre aperto ai due lati e fissavasi ordinariamente con una cintura; più spesso era orlato e tessuto d’oro e di porpora, qualche volta guernito di frange. Sebbene il peplo esser dovesse bianco, ve ne erano puranco di differenti colori.

I popoli dell’Oriente usavano un peplo d’una stoffa assai fina di lino o di cotone; le Cartaginesi erano presso a poco vestite come le Romane.


FERMEZZA DI UN MINISTRO E PRUDENZA DI UN RE.

Lo storico della Sardegna, il Barone Manno, in una preziosa operetta intitolata: Quesiti sui pubblici ufficiali, e nella quale svolge i doveri loro con grande saviezza di vedute, reca molti esempi di virtù e di prudenza ne’ pubblici amministratori, fra quali una tradizionale di Carlo Emanuele III che ne piace riferire.

Il re avea per ragioni di personale benevolenza promesso ad una persona calorosamente raccomandatagli la preferenza nella nomina ad una carica rendutasi vacante. Il ministro Bogino, al quale Carlo Emanuele palesò dappoi quella sua intenzione, consapevole com’era dell’incapacità del candidato, evitò con questa destrezza di portare a conclusione il discorso tenutogli dal re in tal proposito, pregando gli si concedesse di meglio chiarire l’attitudine della persona. La persona si chiarì incapacissima, e la relazione del ministro accennava perciò ad una ripulsa della dimanda. Ma il dispiacere che il re avrebbe sentito se avesse dovuto indietreggiare nella sua promessa lo facea venir sopra alle osservazioni del ministro, al quale perciò davasi l’ordine di tenere apprestate per l’udienza successiva le lettere patenti necessarie per quella nomina. Le patenti adunque presentavansi dal ministro, il quale non altro argomento si riserbò onde lasciare l’opportunità per un nuovo discorso sopra quella persona, che di ordinare [p. 119 modifica]le sue relazioni in guisa che quelle patenti fossero le ultime a venire sotto gli occhi del re. Il re avvisatosi della tacita scaltrezza di quel suo leale, prese allora in sembiante tra benigno e scherzevole a ricordare le passate difficoltà, le quali però non aveano tolto affatto dal suo animo la fiducia di una buona riuscita in quel candidato. Si farà, diceva il re al ministro, si farà come tanti altri che non palesano da principio tutta la loro attitudine, Ma il ministro, il quale avea saggiamente pronosticato anche dell’avvenire di quel candidato, coglieva allora felicemente il destro per rimettere nel cuore del re la dubbiezza mal dileguata; e rispondeva con le seguenti gravi parole. Se le patenti che conferiscono una carica avessero il valore e l’efficacia dei Sagramenti che infondono per sè stessi la grazia, avrei anch’io la medesima speranza in favore del candidato; ma io sono pur troppo persuaso che l’esercizio della carica non lo muterà da quell’inetto ch’egli è — Il re colpito da questo franco parlare non disse cosa veruna; ma operò da quel grande ch’egli era; ripose la patente non segnata nelle mani del ministro, e non si parlò più di quella nomina.


VIRTÙ PREMIATA

Nel 1801 si rifugiò presso l’oste Wegener a Leer nell’Annoverese, un Inglese inseguito dai Gendarmi Francesi, e scongiurò quell’oste di dargli asilo in casa per alcuni giorni, fintanto che non giungesse un bastimento inglese che egli aspettava, per ricondurlo in Inghilterra, e egli promise un premio di 1000 lire sterline. L’oste, uomo generoso, sebbene nel caso che fosse scoperto fosse certo di perdere la vita, ascolta la voce dell’umanità, e nasconde in casa per più giorni quell’ospite pericoloso. Comparisce la nave salvatrice, e l’inglese si reca felicemente a bordo, ma vano è ogni sforzo per fare accettare al virtuoso oste la promessagli mercede; e tutto quello a che questi acconsente, si è di dire allo straniero il suo nome, luogo, giorno di nascita ed altre notizie ch’ei gli chiede. Si separano, gli anni passano, ed il Wegener trova nella sua coscienza il premio della sua generosa azione. Ultimamente ei vien chiamato dal giudice del luogo, ed invitato a farsi riconoscere per quelle che è chiamato per erede della somma di 60,000 lire sterline, da un inglese morto da poco tempo alle Indie Occidentali.


IL CASTORO.

Tutti conoscono il castoro, perchè dal suo pelo se ne tessono cappelli, o perchè somministra un potente farmaco alla medicina. Tutti lo hanno veduto vivo o dipinto, e ne ricordano il pelo rossastro, le gambe corte, la coda piatta, larga e scagliosa. Ora questo animale, che non ha la sagacità del cane, non l’astuzia della volpe, non la forza dell’elefante, questo animale, sempre innocuo all’uomo, mansueto, senza passioni violente, e nello stesso tempo di un’industria e di una intelligenza appena credibili.

Le spiaggie più abbandonate del Canadà, in riva ai grandi fiumi, lasciano campo ai castori di sviluppare pienamente le facoltà di cui furono dotati; la essi fanno pompa di tutta la loro abilità nell’arte di edificare; là vivono concordi in società ben regolate, dove hanno degli interessi comuni che antepongono ai privati; dove intendonsi fra di loro quasi avessero un linguaggio. E tanto è il buon ordine che regna in queste società, che taluni vi soppongono un capo che avesse una voce preponderante ne’ consigli, che obbligasse i neghittosi al lavoro; ed altre favole, che bisogna sceverare da quanto positivamente sappiamo, dietro le relazioni avute dai molti viaggiatori degni di tutta la fede, che hanno descritto quello che hanno veduto, e nulla più.

Siccome l’acqua è pei castori un elemento necessario, così i primi lavori si fanno in comune dagli individui costituenti una piccola repubblica; e scopo di essi è di mantenere sempre l’acqua del fiume ad un certo livello, onde questa non abbia a mancare ne’ tempi di siccità, o ad inondare i loro abitacoli nell’escrescenza del fiume. A tal uopo costituiscono delle dighe o palizzate, estese da una riva all’altra del fiume, e così resistenti che i cacciatori vi passano come su di un ponte. Per un’opera così grandiosa cominciano i castori ad atterrare gli alberi che ne devono formare la massa principale. Radunansi perciò alcuni individui attorno di un albero, e seduti sulle loro gambe posteriori dannosi a roderlo tutto all’ingiro, coll’avvertenza di farlo cadere dalla parte del fiume. Allorchè questo è atterrato, bisogna sfrondarlo e condurlo al suo posto; e quest’uffizio lo fanno alcuni individui, mentre che altri si occupano a segare alberi di minor mole, che devono formare i piuoli da applicarsi dietro la lunga fila degli alberi atterrati, onde sostenerli contro l’impeto della corrente. Per conficcare questi piuoli nel letto del fiume alcuni castori alla superficie dell’acqua li sostengono in direzione verticale e colla punta in basso, mentre altri calano al fondo, e scavano colle loro zampe anteriori la fossa che deve ricevere il piuolo. Finita questa operazione, tutti insieme dànnosi a riempire i vuoti dell’argine con piccoli rami, o con terra che impastano coi piedi, e trasportano in bocca fino al luogo dei lavori. Dopo una certa epoca i tronchi d’albero ed i piuoli che disposti in linea retta formano la diga, germogliano, e stanno con maggior forza connessi tra di loro.

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Quando i castori hanno terminate questo lavoro che deve servire al ben essere di tutti, dividonsi in tante piccole tribù, ognuna delle quali pensa a costruirsi un congruo domicilio. A tal uopo innalzano in vicinanza del fiume delle capanne tessute con legni, sabbia e fango, e che riescono di una mirabile solidità. Ognuna di queste è di forma rotonda od ovale, col diametro vario dai quattro ai dieci piedi, ed ha ordinariamente un solo piano ed una sola apertura che per un condotto sotterraneo mette profondamente nell’acqua del fiume. Ogni famiglia ha cura della sua capanna, nè permette mai che ivi si introduca uno straniero.

I castori amano di passare la primavera, dispersi e vagabondi per le campagne, e non visitando che di rado i loro abitacoli. Radunansi in principio d’estate, e danno mano ai lavori di cui hanno bisogno, poi raccolgono grande quantità di rami verdi e di scorze di betule, di salici e di pioppi, di cui riempiono i loro magazzeni, finchè il rigore dell’inverno li obbliga a ritirarsi nelle proprie capanne, a godervi quegli agi che sono il meritato premio d’una lunga ed assidua fatica. Là nella quiete domestica succede l’avvicinamento de’ due sessi; e la femmina che diviene feconda, dopo una gestazione di quattro mesi, depone tre o quattro figli. Ai primi tepori di primavera, i maschi sortono alla campagna, lasciando le femmine in custodia delle case e de’ piccini. Dopo sei settimane all’incirca queste tenere creature hanno sufficiente forza per seguire la madre nelle sue peregrinazioni, e questa sorte infatti a nutrire e ristorare sè stessa ed i figli con erbe e scorze verdi.

Non tutti però i castori vivono in truppe così numerose e così ben ordinate, quali fin qui le abbiamo vedute. Incontransi talvolta lungo le sponde del Rodano, del Weser e del Danubio de’ castori solitarj, forse condannatati a quello stato da frequenti scontri cogli uomini che popolano quelle contrade. Occorre però di vederne anche nelle spiaggie deserte del Canadà, dove chiamansi Eremiti. Supposero alcuni autori che fossero individui espulsi dalla società degli altri, pei loro difetti. Ma Cartwright opina invece che sieno de’ vecchi, che attendano degli altri loro congeneri, onde arruolarli o stabilire una famiglia.

È antica ed erronea credenza che il castoro qualora trovisi inseguito dal cacciatore, indovinando le mire di costui, svelga da sè stesso le sue preziose borsette odorifere, e le abbandoni a saziare l’ardente brama del suo nemico. Risulta invece dalle relazioni di Cartwright e di altri viaggiatori, che il castoro, qualora conosca di non potere sfuggire al cacciatore che lo insegue, pongasi ritto sulle gambe posteriori, tremi tutto fissando il suo nemico, e quasi cercasse di placarne lo sdegno, emetta un grido acuto e lamentevole. Un cacciatore fu in realtà commosso nel profondo dell’animo da un castoro che sorprese, mentre trascinava un ramoscello alla sua capanna, e gli disse — “Rassicurati, gentile, innocente creatura, io non ti farei male per quanta ho di più caro al mondo; riprendi il tuo ramo, e va tranquillo e sicuro.”

Ora chi può negare al castoro qualche cosa di più nobile di quella forza che obbliga l’ape, la formica, e tanti piccoli insetti a lavori non meno sorprendenti, ma puri figli dell’istinto? Condillac disse già che di tutti gli esseri creati, quello che più difficilmente si inganna è il meno dotato d’intelligenza. Ed infatti le operazioni che ammiriamo nelle innumerevoli famiglie di insetti, sono di una perfezione eterna, immutabile, voluta dalla natura; il castoro all’incontro non è infallibile ne’ suoi lavori; talvolta egli edifica la sua capanna in una spiaggia sterile, deserta, che poi dovette abbandonare per non trovarvi il necesario alimento. Oppure mancò di previdenza, ed una piena del fiume svelse dai fondamenti il suo casolare. Distruggete cento volte la tela del ragno, che egli la rifabbrica cento volte nell’istesso luogo. Il castoro invece, perseguitato dall’uomo, si riduce alla trista condizione di vivere solitario, nelle tane scavate da altri animali, rinunciando a quelle facoltà che ha sortito dalla natura, e che gli sono divenute inutili o dannose. Un uomo rozzo, ma di cuore sensibile, chiamato Atkins, ricusava assolutamente di mangiare la carne dei castori, dicendo che quelli animali erano esseri ragionevoli obbligati da un maligno spirito ad una forma tutt’altro che umana.

F. D. F.



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