Così parlò Zarathustra/Parte seconda/Della redenzione
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Della redenzione.
Un giorno, mentre Zarathustra passava il grande ponte, gli storpi e i mendicanti lo circondarono, e un gobbo gli parlò così:
Guarda Zarathustra, anche il popolo impara da te e ha fede nella tua dottrina, ma affinchè possa crederti interamente, è necessaria una cosa — tu devi anzitutto persuadere i contraffatti! Qui tu ne hai una turba singolare: l’occasione ha più d’un ciuffo! Tu sai rendere la vista ai ciechi, e ridar l’agilità delle gambe agli sciancati; e a colui che ha troppa grazia di Dio su la schiena potresti toglierne una parte: ecco, a mio avviso, il vero modo per far sì che anche gli storpi abbian fede in Zarathustra!».
Ma Zarathustra così rispose a colui che gli aveva rivolta la parola:
«Chi toglie la gobba al gobbo lo priva con ciò del suo spirito: così il popolo c’insegna. E se si rende la vista al cieco egli sarà costretto a vedere molte brutte cose: sì che dovrà imprecare a colui che lo ha guarito. Infine, quegli che ridà l’agilità delle gambe allo sciancato gli rende il peggior dei servigi: giacchè quando avrà appreso a correre i suoi vizi lo trascineranno con loro: ciò insegna il popolo a proposito degli storpi.
E perchè Zarathustra non dovrebbe imparare dal popolo ciò che il popolo impara da Zarathustra?
Ma dacchè mi trovo tra uomini, mi sembra naturale che a taluno manchi un occhio, a un altro un orecchio, ad un terzo la gamba, e che altri siano privi della lingua, del naso e anche della testa.
Cose peggiori ho vedute: cose orribili tanto, che non vorrei parlare di tutte, e pur non ne so tacere interamente: uomini, cioè, cui tutto fa difetto, mentre possiedono una sola cosa in più — uomini che non sono null’altro che un grande occhio, o una grande bocca, o un grande ventre: — io li chiamo storpi a rovescio.
E quando io uscii dalla mia solitudine e per la prima volta varcai questo ponte, io non prestai fede ai miei occhi, e guardando, guardando con insistenza dissi alfine a me stesso: «ma codesta è un’orecchia! un’orecchia grande quanto un uomo!». Guardai con attenzione ancor maggiore: e in verità sotto l’orecchia s’agitava una cosa tanto piccola e misera e debole da far pietà. E in verità l’orecchia enorme era posta sovra un tenue e piccolo stelo, — ma lo stelo era un uomo! E chi si fosse messo gli occhiali avrebbe anche potuto discernere un grazioso visino; anche un’animetta flaccida pendente dallo stelo. Se non che il popolo mi disse che la grande orecchia non soltanto era un uomo, ma anche un grand’uomo, un uomo di mirabile ingegno. Ma io non credetti mai al popolo quand’esso mi parlò di uomini grandi — e rimasi fermo nella mia credenza che quegli fosse uno storpio a rovescio, che di tutto avea troppo poco, e d’una sola cosa troppo».
Poichè Zarathustra ebbe parlato in tal modo al gobbo ed a coloro di cui il gobbo era interprete, egli si volse sdegnoso ai suoi discepoli e disse loro:
«In verità, miei amici, io cammino tra gli uomini come in mezzo a un ammasso di frammenti e di membra umane!
Orribile è il veder l’uomo frantumato e lacerato come su un campo di battaglia o in un pubblico macello.
E se il mio sguardo rifugge dal presente al passato, trova sempre la stessa cosa: frammenti, membra sparse, orribili mutilati — ma non già uomini!
Il presente e il passato sulla terra — ahimè, amici miei — son per me intollerabili: nè saprei adattarmi a vivere, s’io non fossi anche un profeta che legge nell’avvenire.
Un profeta, un volente, un creatore, un ponte che conduce all’avvenire, — ah, e insieme in certo modo anche uno storpio addossato a questo ponte: Zarathustra è tutto ciò.
Ed anche voi vi chiedeste sovente: «Chi è per noi Zarathustra? Come da noi dev’essere chiamato?». E come me, anche voi stessi alle vostre domande rispondeste con nuove domande.
È egli un promettitore? O un adempitore? Un conquistatore? Oppure un erede? Un autunno? Oppure un aratro? Un medico? 0 un convalescente?
È egli un poeta? O uno che ama la verità? Un liberatore? Oppure un domatore? Un buono? O un malvagio?
Io mi aggiro tra gli uomini, come in mezzo a frammenti dell’avvenire: di quell’avvenire che io vedo.
E a questo è rivolto ogni mio pensiero e ogni mio desiderio: comporre in unità tutto ciò che ora è frammento e lugubre mistero!
E come potrei tollerare d’essere uomo, se l’uomo non dovesse essere anche poeta, profeta e liberatore!
Riscattare il passato: ogni «così fu» con un «così volli!» — ecco per me la redenzione!
Il volere: ecco il nome del liberatore, del dispensator di gioie: il nome che io insegnai a voi, o miei amici! Ma ora imparate ancor questo: la volontà stessa è tuttavia prigioniera.
Il volere redime; ma come si chiama ciò che avvince di catene lo stesso liberatore?
«Così fu!». Ecco ciò che fa degrignare i denti alla volontà: l’intima pena di essa. Impotente contro ciò che fu fatto, essa per tutto quello, che è trascorso è una spettatrice malevola.
La volontà non può trionfare del passato. Non poter infrangere il tempo e le brame del tempo: ecco ciò che più l’addolora.
La volontà redime: che cosa potrà essa trovare per liberarsi da ciò che l’affligge e per beffarsi delle sue catene?
Ah, ogni prigioniero diventa un pazzo! Anche la volontà prigioniera si rende libera in pazzo modo.
Il pensare che ciò che fu non possa ritornare la fa fremere di rabbia; il passato, ecco il masso ch’essa non può rovesciare.
E così essa rovescia, irosa, i massi; e si vendica con tutto ciò che non prova rabbia al pari di lei.
In tal modo la volontà — la liberatrice — diviene una causa di dolore: e su tutto ciò che è atto a soffrire essa si vendica del non poter ritornare nel passato.
Questa, questa soltanto è la vera vendetta: la ripugnanza della volontà per il tempo e il «così fu».
In verità, una grande follia è nel nostro volere: e fu sventura per ogni cosa umana che tal follia imparasse ad aver dello spirito.
Lo spirito della vendetta! Amici miei, tale fu sinora l’oggetto d’ogni meditazione ultima per parte dell’uomo; dov’era il dolore si suppose dover esser sempre una punizione.
«Punizione», così la vendetta chiama sè stessa: con una parola menzognera essa sa procacciarsi ipocritamente una buona coscienza.
E siccome in colui che vuole v’ha sempre il dolore di non poter volere sul passato — così il volere e la stessa vita dovevano essere una punizione!
E allora le nubi s’addensarono su lo spirito: sino a tanto che la follìa predicò: «Tutto perisce, dunque tutto è degno di perire».
«È vera giustizia la legge che impone al tempo di divorare i propri nati»: — così predicò la follìa.
«Moralmente ordinate sono le cose secondo il diritto e il castigo. Oh, dov’è mai la liberazione dal flusso delle cose e dal castigo che ha nome «esistenza?»: — così predicò la follìa.
Può darsi redenzione quando esiste un eterno diritto?
«Ah, non è possibile far rotolare il masso «così fu»; eterno dunque dev’essere anche il castigo»: così predicò la follia.
«Nessun’azione può esser distrutta! Come mai la punizione potrebbe renderla non avvenuta? Questo, questo, è l’eterno castigo, che l’esistenza stessa dev’essere in eterno azione e colpa! «Finchè la volontà non voglia redimersi da sè stessa, e il volere diventi la rinunzia al volere»: — ma voi la conoscete, miei fratelli, questa canzone della follia!
Lontano vi condussi da tali canzoni quando v’insegnai: «La volontà creatrice».
Ogni «così fu» è un frammento, un lugubre caso, sino a tanto che la volontà creatrice non abbia detto: «Ma così io volli! Ma così io voglio! E così vorrò!».
Ma la volontà ha forse sinora osato parlare così? E quando è successo ciò? Fu mai sin qui la volontà liberata dalla sua propria follia?
Divenne essa la liberatrice di sè medesima e la dispensatrice di gioia a sè stessa? Ha essa dimenticato lo spirito della vendetta e il digrignar dei denti?
E chi insegnò a lei di riconciliarsi col tempo, questa sublime di tutte le riconciliazioni?
Più in alto d’ogni riconciliazione deve volere la volontà, la quale è brama di dominare. Ora chi le insegnò di voler anche dominare sul passato?
Ma in questo punto Zarathustra interruppe il suo discorso come colui che è in preda al più grande sbigottimento. Con occhio atterrito egli guardò i suoi discepoli; lo sguardo suo penetrava come una freccia nei lor più reconditi pensieri. Ma poco dopo egli die’ in una risata e disse rabbonito:
È difficile vivere tra gli uomini, perchè difficile è tacere. Specialmente per chi chiacchiera volentieri».
Così parlò Zarathustra. Ma il gobbo aveva ascoltato il suo discorso, celandosi il volto; e quando sentì ridere Zarathustra lo guardò curiosamente, e disse lento:
«Perchè mai Zarathustra parla a noi in altro modo che a’ suoi discepoli?».
Zarathustra rispose: «E perchè dovreste stupirne? Coi gobbi è permesso un parlare gobbo».
«Sta bene, disse il gobbo: e con gli scolari si può parlare come s’è imparato alla scuola.
Ma perchè Zarathustra parla ai suoi discepoli diversamente che a sè stesso?».