Così parlò Zarathustra/Parte seconda/L'indovino
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L'indovino
«E io vidi una grande tristezza discendere sugli uomini. I migliori si sentirono stanchi della loro opera.
Una dottrina fu proclamata, e una nuova fede con essa: «Tutto è vano, tutto è uguale, tutto fu!».
E da tutte le colline echeggiò il grido: * Tutto è vano, tutto è uguale, tutto fu!».
Noi abbiamo, è vero, raccolto: ma perchè le nostre frutta marcirono e si macchiarono di chiazze brune? Che cosa cadde giù dalla luna malvagia nell’ultima notte?
Fu vano ogni lavoro, in veleno si mutò il nostro vino, il malocchio arse i nostri campi e fece aridi i nostri cori.
Noi tutti inaridimmo: se il fuoco piomba su noi, ci trasmutiamo in cenere: — sì, noi abbiamo stancato persino il fuoco.
Tutte le fonti per noi si estenuarono: anche il mare si ritrasse.
Ogni fondamento è scosso, ma la profondità non vuole ingoiarci!
«Ah, dov’è ancora un mare, in cui ci si possa annegare?». Così suona il nostro lamento — sopra le morte paludi.
In verità, noi siamo troppo stanchi persin per la morte; ora siam desti e continuiamo a vivere nelle tombe!».
Così Zarathustra udì predicare un indovino: e la sua predizione gli toccò il cuore e lo cangiò! Egli vagava mesto e stanco: e divenne uguale a coloro cui l’indovino aveva accennato.
«Per verità», disse egli ai suoi discepoli, «in breve scenderà su noi il lungo crepuscolo. Ahimè, come potrò portare vivida al di là la mia luce!
Purchè non la estingua tanta tristezza! Perchè essa dev’essere luce a mondi più lontani e rischiarare più remote notti!».
In tal modo afflitto nel cuore, Zarathustra errava intorno; e per tre giorni digiunò, non ebbe riposo, e rimase muto. Finalmente avvenne ch’egli cadesse in un profondo sonno; ma i suoi discepoli sedettero intorno a lui nelle lunghe veglie notturne attendendo ansiosi il suo risveglio, per sentirlo parlare un’altra volta e vederlo liberato dalla sua tristezza.
Or questo è il discorso che fece Zarathustra, dopo che si fu ridestato (e la sua voce giungeva ai discepoli come da una grande lontananza):
«Udite qual sogno io sognai, o amici, e aiutatemi a spiegarne il significato!
Un mistero mi sembra ancora questo sogno; il suo significato è tuttavia riposto e non vola ancora intorno con libere ali.
D’aver rinunziato a tutta la vita, io sognai. Ero divenuto guardiano notturno dei morti, lassù nella solitaria rocca della morte, in mezzo ai monti.
Lassù io vigilava sui sarcofagi: e di trofei erano ricolme le cupe tombe.
Dai sarcofagi vitrei la vita sopraffatta mi guardava.
Io respirava l’odore delle eternità fatte polvere: e dalla polvere la mia anima si sentiva soffocata. E chi avrebbe potuto in tal luogo dar aria alla sua anima?
La luce della mezzanotte mi emendava, e vicino a lei ritrovavo accoccolata la solitudine; e, terza e peggiore delle mie amiche, la quiete rantolante della morte.
Io teneva le chiavi, le più arrugginite di tutte le chiavi: con quelle sapevo aprire la più stridente delle porte.
Simile a un orribile gemito il suono si propagava pei lunghi corridoi quando la porta si moveva sui cardini: simile al grido d’un uccello di malaugurio iroso d’esser destato.
Ma ancor più orribilmente si sentiva stretto il cuore, quando il silenzio tornava a regnare tutt’intorno, ed io sedevo solo in mezzo a quella tristissima quiete.
Così trascorreva e si trascinava il tempo, se pur il tempo esisteva ancora: che ne so io! Ma finalmente successe quello che mi destò.
Tre volte fu picchiato alla porta, e i colpi parevan tuoni: tre volte ne rimbombarono con orribili echi le volte: allora io corsi alla porta.
«Alpa! — gridai — chi reca sul monte la sua cenere? Alpa! Alpa! Chi reca la sua cenere sul monte?».
E io girai la chiave e mi sforzai ad aprire la porta. Ma non riuscii che a socchiuderla.
E in quel punto un vento impetuoso la spalancò del tutto: fischiando, stridendo e urlando, esso mi gettò incontro a una nera bara.
E tra il fischiare e lo stridìo e l’urlo del vento la bara si aperse e una centuplice risata ne irruppe.
E da mille grottesche forme di bambini, e di angeli e di gufi e di buffoni e di farfalle grandi come bambini uscì un riso impetuoso di scherno contro di me.
Io ne provai orribile spavento: e gridai inorridito come mai ancora avevo gridato.
Ma le mie stesse grida mi risvegliarono».
In tal modo Zarathustra narrò il suo sogno, e poi si tacque; giacchè ancora non sapeva spiegarlo. Ma il discepolo a lui prediletto sorse ratto in piedi, lo afferrò per la mano e così disse:
«Della tua stessa vita ci dà la chiave questo sogno, o Zarathustra.
Non sei forse tu il vento dal fischio acuto, che spalanca le porte nelle rocche della morte?
Non sei forse tu il feretro popolato di maligne forme variopinte e di alate caricature della vita?
In verità come un riso infantile scoppiante da mille bocche, Zarathustra penetra in tutte le catacombe, ridendo di quei vigilatori della notte e della morte, e di chiunque fa risuonare un mazzo di lugubri chiavi.
IL tuo riso, o Zarathustra, li spaventerà e li rovescerà come un soffio; la loro impotenza ed il loro risveglio attesteranno la tua possanza.
E persin nell’ora dei lunghi crepuscoli e della stanchezza mortale, tu non tramonterai sul nostro orizzonte, o assertore della vita!
Tu ci facesti ammirare nuove stelle e nuovi splendori notturni: in verità, il riso stesso tu lo stendesti sopra di noi, come una tenda screziata.
D’ora innanzi un riso infantile scaturirà da tutti i feretri; un grande vento trionfatore spazzerà d’un soffio ogni stanchezza mortale; tu stesso ci sei di ciò mallevadore e profeta!
In verità, i tuoi stessi nemici tu hai veduto in sogno: quello fu il più terribile dei tuoi sogni!
Ma come tu ti ridestasti e ritornasti in te stesso, così devono essi ridestarsi e venire a te!».
Così parlò il discepolo: e tutti allora s’accalcarono intorno a Zarathustra, lo presero per mano e vollero persuaderlo ad abbandonare il letto e la sua tristezza. Ma Zarathustra si alzò a sedere sul suo giaciglio, con lo sguardo smarrito. Come uno che ritorna da un lungo esilio, egli contemplava i suoi discepoli e considerava le loro faccie; ma ancora non li ravvisava. Ma quando l’ebber levato in piedi, il suo occhio cangiò rapidamente; e Zarathustra comprese tutto ciò ch’era successo, passò la mano nella barba e disse con voce sonora:
«Ebbene! Quello ch’è stato è stato: ora apparecchiatemi un buon pranzo, e presto! Così intendo far penitenza dei miei sogni cattivi!
Ma l’indovino deve mangiare e bere al mio fianco: ed in verità io saprò indicargli ancora un mare, dov’egli potrà annegarsi!».
Così parlò Zarathustra. Ma poi guardò a lungo il discepolo che aveva spiegato il sogno, e scosse il capo.