Così parlò Zarathustra/Parte prima/Del pallido delinquente
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Del pallido delinquente.
«Voi non volete uccidere, o giudici e sacrificatori, prima che la vittima non abbia accennato col capo.
Ecco, ora il pallido delinquente ha accennato: il suo occhio rivela un grande disprezzo:
«Il mio Io, è cosa che dev’essere superata: il mio Io è il mio grande disprezzo dell’uomo» — così dice quell’occhio.
Il momento più sublime fu per lui quello nel quale giudicò sè stesso, non fate che il sublime ricada ora nella bassezza!
Per chi soffre in tal modo per sè stesso non v’ha altra redenzione che una pronta morte.
La vostra sentenza, o giudici, dev’essere pietà e non vendetta. E quando uccidete state bene attenti di potere, voi stessi, giustificar la vita!
Non basta che voi vi riconciliate con colui che uccidete.
La vostra tristezza divenga il desiderio del superuomo: in tal modo giustificherete d’essere ancora in vita!
«Nemico», dovete dire, non già «malfattore»; «ammalato», dovete dire, non già «furfante»; «demente», non già «peccatore».
E se tu, o rosso giudice, volessi ripetere ad alta voce tutto ciò che hai commesso nel tuo pensiero, chi non dovrebbe gridare: via questa immondizia e questo veleno?
Ma altra cosa è il pensiero, altra l’atto, ed altra ancora l’imagine dell’atto. La ruota della causa non si volge tra loro.
Un’imagine ha reso pallido quell’uomo. Egli era degno della sua azione allorchè la commise: ma, come l’ebbe compiuta, non seppe sopportarne l’imagine.
Rivide sempre sè stesso quale autore d’un fatto.
Io chiamo ciò demenza: l’eccezione fatta natura.
Una linea segnata col gesso paralizza la gallina: il colpo da lui eseguito paralizzò la sua povera ragione: io chiamo ciò la follia dopo il fatto.
Uditemi, o giudici! V’ha ancora un’altra follia: quella che precede l’azione. Ah voi non penetraste abbastanza a dentro in quell’anima!
Dice il rosso giudice: «Perchè questo delinquente ha ucciso? Egli voleva rubare». Ma io vi dico: «La sua anima era assetata di sangue, non di possesso: egli era assetato della ebrietà del colpire.
Ma la sua povera ragione non comprendeva una tale follia e lo persuase. «Che valore ha il sangue?» — gli disse — non vuoi almeno arricchirti di qualche cosa nello stesso tempo? O vendicarti?».
Ed egli ascoltò la sua povera ragione: le sue parole pesavano su lui come piombo — e allora rubò mentre uccideva.
Egli non voleva dover vergognarsi della sua follìa.
E ora pesa nuovamente su lui il piombo della sua colpa e un’altra volta la sua ragione è intorpidita, paralizzata, pesante.
Se egli potesse solamente scrollare il capo, il suo peso svanirebbe: ma chi può far scrollare quel capo?
Che cos’è quest’uomo? Una malattia che col mezzo dello spirito agisce sulle cose esteriori in cerca d’una preda.
Che cos’è quest’uomo? Un gruppo di serpenti irrequieti e feroci, ciascuno dei quali cerca per una propria via la preda.
Guardate quel povero corpo: ciò che egli sofferse e desiderò fu interpretato dall’anima quale bramosia assassina e desiderio della voluttà del coltello.
Chi è ammalato viene colto da quel male che oggi è detto «delitto»; egli vuole cagionar dolore mediante ciò che gli procurava dolore. Ma vi furono altri tempi; e altro bene e altro male.
Una volta il male era il dubbio e lo spirito d’indipendenza. E allora l’ammalato diventava un eretico o una strega: e quale eretico o quale strega egli soffriva e voleva far soffrire.
Ma i vostri orecchi son sordi a questo; voi mi dite che ciò nuoce ai buoni che sono tra voi. Ma che m’importano i vostri buoni!
Molte cose nei vostri buoni mi destan la nausea, e dirvi ciò che v’ha di male in loro è il men peggio. Quanto sarei contento se fosser colti da una demenza che li facesse perire, come questo pallido delinquente!
Questo vorrei: che la loro follìa si chiamasse verità o sincerità o giustizia: ma essi possiedono la virtù per poter vivere a lungo nella lor miserabile contentezza.
Io sono il parapetto di un fiume: s’appoggi a me chi può!
Ma io non sono già la vostra stampella».
Così parlò Zarathustra.