Così parlò Zarathustra/Parte prima/Del leggere e scrivere
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Del leggere e scrivere.
«Di tutto ciò che è scritto io non amo se non quello che taluno scrisse col proprio sangue. Scrivi col sangue, e tu apprenderai che il sangue è spirito.
Non è facile comprendere il sangue degli altri; io odio i lettori oziosi.
Chi conosce il lettore non farà mai più nulla per lui.
Ancor un secolo di lettori — e lo stesso spirito sarà un cadavere che pute.
Che tutti sappiano leggere: ecco ciò che, a lungo andare, guasta non solo lo scrivere, ma anche il pensiero.
Una volta lo spirito era Dio, poi si fece uomo e finirà col diventar plebe.
Chi scrive col sangue e in aforismi vuole non soltanto esser letto, ma anche tenuto a memoria.
In montagna il sentiero più breve conduce di culmine in culmine: ma per seguirlo son necessarie buone gambe. Gli aforismi devono essere culmini: e quelli per cui sono scritti devono essere alti e forti.
L’aria rarefatta e pura, il pericolo vicino e lo spirito avvivato da una malizia gioconda: ecco alcune cose che stanno bene insieme.
Io sono coraggioso: voglio avere de’ folletti intorno a me. Li crea a sè stesso il coraggio, che discaccia i fantasmi: — il coraggio vuol ridere.
Io non sento nello stesso modo che voi: questa nube, che io miro ai miei piedi, questa cosa cupa e pesante, della quale io rido — è per voi la nube gravida di tempesta.
Voi guardate in alto quando sentite il bisogno di esaltarvi. Ed io guardo in giù, perchè sono esaltato.
Chi di voi sa ad un tempo sentirsi esaltato e ridere?
Chi è salito sui più alti monti, ride di tutte le tragedie del teatro e della vita.
Coraggiosi, incuranti, beffardi, violenti — tali ci comanda di esser la sapienza: la quale è donna e non ama che i guerrieri.
Voi mi dite: «la vita è difficile a sopportare». Ma allora a che cosa vi servirebbe al mattino il vostro orgoglio e alla sera la vostra rassegnazione?
La vita è difficile a sopportare: per carità, non pretendete d’essere tanto delicati! Noi tutti insieme siamo asini e asine destinati ad essere caricati.
Che cosa abbiam noi di comune col bottoncino della rosa, il quale trema per il peso di una goccia di rugiada?
È vero: noi amiamo la vita, non già perchè siamo assuefatti alla vita, bensì perchè siamo avvezzi ad amare.
C’è sempre una qualche parte di demenza nell’amore. Ma anche nella demenza c’è una parte di ragione.
Ed anche a me — che amo la vita, e le farfalle e le bolle di sapone e ciò che loro assomiglia tra gli uomini — sembra di conoscere meglio d’ogni altro la felicità.
Veder svolazzare coteste animelle leggere, svelte, graziose — ciò seduce Zarathustra al pianto ed al canto.
Io non potrei credere se non in un Dio che sapesse danzare.
Quando guardai il mio demonio, lo trovai serio, pesante, profondo, solenne: era lo spirito della gravità, — per cagion del quale cade ogni cosa.
Non con l’ira si uccide, bensì col riso. Orsù uccidiamo lo spirito della gravità.
Ho imparato a camminare: da allora in poi mi piace correre. Ho imparato a volare: da allora in poi non voglio più essere spinto, se mi piaccia di spiccarmi da un luogo.
Ora io sono leggero, ora volo; ora per me danza un Dio».
Così parlò Zarathustra.