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In tema di moda

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In tema di moda



Foggie francesi e aspirazioni italiane.

In attesa dell’avvento della moda italiana rassegniamoci a interrogare ancora quella francese. Non vorrei essere accusata di «antichauvinismo»; ma io ritengo che continueremo a interrogarla, anche quando l’avvento della moda italiana sarà diventato un fatto compiuto. Per questo, che, se lo diventerà, sarà sempre un brutto fatto. Chi ha avuto la prima singolarissima idea di fare del nazionalismo attraverso la foggia del vestire femminile, ha dimenticato che la moda è, per se stessa, un fenomeno d’imitazione e che, nella diffusione «universale» di questa imitazione, sta il segreto della sua forza onnipotente. Che il regolatore di questa forza sia Parigi, non deve meravigliare. La [p. 166 modifica]moda è determinata da una quantità di circostanze, che si mutano in altrettanti fattori d’ordine sociale, industriale, commerciale e anche psicologico: — nessuna città, come Parigi, riassume e coordina questi fattori — nessuna potrebbe, meglio della capitale francese, determinare quale sia la foggia di costume che meglio risponde alle esigenze dell'ora. La femminilità del mondo intero lo ha così ben compreso, che da secoli si è piegata senza protestare alla supremazia di Parigi e ha accettato dalle sue labbra il verbo dell’eleganza.

Persino New-York e Londra, che pure potevano contendere a Parigi molti dei suoi titoli ad essere l'arbitra della moda, sono diventate sue tributarie. Che solo fra tutte le nazioni l'Italia cerchi di sottrarsi a questa soggezione indiscussa, è inammissibile. Fare da se è una bella cosa, senza dubbio, ma bisogna poter fare da sè. Ora, di che cosa potrebbe essere costituita una moda italiana? Di elementi tradizionali, no; artistici, neppure; attivi, nemmeno. Continuare la tradizione dei costumi regionali non è più possibile, col carattere di universalità che la moda ha assunto da oltre un secolo. Il costume regionale, sovente pittoresco, spesso artistico, sempre pieno di poesia, è [p. 167 modifica]diventato roba da collezione, da museo, da cromolitografìa. La moda ha un abito diverso, non per ogni paese, ma per ogni ora della giornata: non esistono più il «pezzotto» genovese e le «spadine» brianzuole e il corsetto di velluto napoletano e la gonna rossa della fobellina e il «cachemire» della gentildonna piemontese e la mantiglia della dama romana; esistono invece il «tailleur», la «tea gown», la «sortie», l'«habillé» e l'abito da mattino e quello per il pomeriggio e quello da sera e quello diverso per ogni diversa circostanza. La stessa varietà dei vocaboli dice il concorso di tutti i Paesi a formare l'internazionalità sovrana della moda. Il «trotteur», la «sortie», l'«habillé», sono francesi; il «taylor», la «tea gown», inglesi; il «dolman» è viennese; la «blusa» è russa; il «tennis», il «polo», il «footing», americani, come i vocaboli.

Neppure all'arte noi potremmo chiedere 1 nostri modelli. Lasciamo stare la scultura, per la quale non esistono che due modi di coprire un nudo: colla tunica greca e col paludamento romano. La pittura italiana non è molto più varia per quello che concerne l'arte del vestire, on vorremo certo copiare le madonne bizantine dei primitivi! e nemmeno i veli della [p. 168 modifica]«Primavera» botticelliana, e neppure le fastose e grevi dogaresse del Tiepolo e del Veronese, le rigide dame del Tiziano — la «Duchessa d’Urbino», «Isabella d’Este», la «Bella». — sovrano animatore di nudi, ma farraginoso sarto di manichini? I capolavori dei grandi maestri italiani attingono tutti a due sole fonti: la religione o la mitologia, il misticismo o il paganesimo. Accanto alle Madonne soavissime del Botticelli, agli Angeli del Lippi, alle Vergini, la Dafne, la Flora, la Leda. Uno solo fra i maestri è rimasto nell'umanità: il Leonardo, e quegli ha fatto della psicologia. «Monna Lisa del Giocondo» ha un sorriso inarrivabile, il più complesso, il più enigmatico, il più profondo dei sorrisi; ma porta una vita assolutamente brutta.

L’arte del vestito è un dettaglio trascurabile e trascurato dai nostri sommi. Fiorisce invece in epoche di minor gloria per l'arte, attraverso i pittori della grazia femminile e anche della frivolità. Fragonard è il pittore per eccellenza dei «dessous», degli scarpini e di tutto l'armamentario della toeletta femminile, ma Fragonard è francese, come era stato francese il Mignard, come lo sarà dopo il Greuze.

E, sono inglesi il Reynolds, il Gainsborough, il [p. 169 modifica]Lawrence, che tutti potrebbero offrire davvero i modelli di vestire femminile che invano noi chiederemmo alle Gallerie dei nostri maestri. Perchè bisogna pensare questo: che, a meno di fare non del vestito, ma del travestito, non è possibile risalire oltre il 700 per chiedere un'ispirazione alle mode del passato. Ora, nel 700, mentre la Francia dipingeva le sue «petites marquises» dalle parrucche incipriate, i nei artificiali e i «falbalas» innumerevoli, l'Italia si volgeva grave a interrogare il volto austero della Scienza.

Esclusa la tradizione ed esclusa l’ispirazione artistica, dove troveremmo gli elementi attivi per comporre una moda nostra?

Nella supremazia di Parigi rispetto alla moda, c’è anche una ragione storica. Oggi, il tono della moda, nella capitale francese, è dato sopratutto dalla galanteria: in certe epoche dell’anno, il «demi-monde» funziona da manichino dei grandi creatori di foggie nuove, portandosi attorno sui camici delle Corse, nei Saloni delle Esposizioni, nei più frequentati «tea-room», dovunque, insomma, si dia convegno il mondo elegante, la toeletta da «lanciare ». Collaboratrici efficacissime dei grandi «faiseurs» sono anche le attrici in voga, che [p. 170 modifica]fanno della toeletta una questione d'importanza capitale. Ma una volta, il tono della moda era dato dalla Corte. Quando la Corte dei Re di Francia era la prima del mondo per fasto, per splendore, per eleganza e adunava in se il fiore della bellezza e della grazia di tutta la femminilità aristocratica, non di Francia soltanto, ma di tutta Europa, e a tutta P Europa dettava legge anche in fatto di grazia e di eleganza, fu allora che nacque la supremazia di Parigi nel campo della moda. La supremazia rimase anche quando la monarchia decadde e il fulgore della Corte si spense; nuova forza attinse poi, quando quel fulgore risorse coll'Impero: le Tuileries rinnovarono i fasti di Versailles; più tardi ancora, Compiègne risuscitò le eleganze e le squisitezze del Petit Trianon, e ognuna di quelle resurrezioni aggiungeva al prestigio e all'autorità di Parigi la confermava sovrana nel mondo della eleganza.

Abbiamo noi una Corte che riproduca e continui, anche soltanto in un riflesso pallido, il fasto di Versailles e delle Tuileries? No. Non l'abbiamo noi e non l'ha nessuna delle Nazioni che ancora s’inchinano dinanzi a un Re. Il ventesimo secolo ha democratizzato [p. 171 modifica]fondamente l'espressione decorativa del principio reale. Alla regalità moderna manca assolutamente il «culto esterno». I Sovrani non muovono più coll'ermellino sulle spalle — le Corti non sono più il convegno abituale di tutta una classe della nazione. A tutto quello che era prestigio, fasto, pompa, si sono sostituite virtù più solide e più mirabili qualità, ma tutte fatte per semplificare la vita e non per adornarla.

Noi non abbiamo, dunque, una Corte che possa costituire un principio attivo per la creazione d’una moda nuova, «nostra», e non abbiamo nemmeno il modo di sostituirla. Eoi non possiamo, come Parigi, offrire al mondo intero un convegno permanente di tutte le espressioni più energiche, più audaci, più piacevoli, più saggie, più folli, più mirabili, più detestabili del vivere moderno. Roma? Roma è altra cosa i è il convegno diplomatico e mistico e artistico del mondo intero, sì, ma non è, rispetto alla vita, il poliedro sfaccettato e brillante che è Parigi. Poi, un convegno internazionale sarebbe piuttosto negativo di fronte alla riuscita della imposizione d una moda nazionale.

Dunque? La conclusione è evidente. Bisogna limitare le aspirazioni nostre chauviniste a un adattamento della moda che Parigi ci presenta. [p. 172 modifica]Prendere, di quello che ci viene offerto, tutto il buono, trascurare rutto l’eccessivo, il bizzarro, l’antipatico. In questo senso, il movimento nuovo riuscirebbe veramente efficace; sarebbe il trionfo del gusto personale e del buon senso sul scimmiottare banale e sull'accettazione supina e inintelligente.

Ma di più, nulla.