Commedia (Tommaseo)/Il secolo di Dante
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IL SECOLO DI DANTE.
Per le terre d’Italia che ricettarono un profugo, corre la gloria a baciare le sue vestigia; interroga i monumenti, le storie, le tradizioni per poter dire: Qui stette Dante Allighieri. Quest’Italia ch’egli flagellò con la fiera libertà del suo verso, lo adora. Moltiplicano le ristampe, i comenti, le vite, i ritratti; sempre nuove germogliano questioni, sempre nuove bellezze sfavillano. Lo citano i dotti e gli storici, lo studiano come maestro di ben dire i prosatori e gli scienziati. Leggere Dante è un dovere, rileggerlo è bisogno; sentirlo è presagio di grandezza.
Notabile che nessun secolo, dopo il decimoquarto, tale onoranza rendesse al nome di lui, quale il nostro. Dalle querimonie amorose, dall’argute gonfiezze, e dalle arcadiche semplicità sollevarsi a così nobile esempio, pare a me lieto augurio di sorti migliori.
Ho detto che primo a degnamente onorar l’Allighieri fu il secolo nel quale egli crebbe. Chi non sa del Boccaccio, che cinquant’anni dopo la morte di lui ne comenta in una chiesa di Firenze il poema, e co’ propri rincalza i rimproveri di Dante innanzi a’ cittadini che non temono d’ascoltarlo; il Boccaccio che la Commedia manda al Petrarca, trascritta di sua propria mano, dono e consiglio? Chi non legge con gioia nel guelfo Villani le schiette parole: «Questo Dante fu onorevole antico cittadino di Firenze... fu grande letterato quasi in ogni scienza... fu sommo poeta e filosofo?» E perchè la nazione, a que’ tempi non isfiordta della sua giovane vita, sentiva l’alito della poesia, però di poetiche forme vestiva la lode; e narrava d’un sogno rivelatore ch’ebbe la madre incinta di lui. E un suo discepolo raccontava poi come «l’ottavo mese dal dì della morte del suo maestro, una notte Jacopo figliuolo di Dante avesse, nel sonno, veduto il padre, vestito di candidissimi vestimenti, e d’una luce non usata risplendente nel viso, venire a lui per mostrargli, dietro una stuoia al muro confitta in una finestretta da nessuno giammai più veduta,» i tredici canti, cercati indarno, del compiuto poema. Questa è lode invidiabile d’un poeta, quando un secolo imbevuto di poesia lo comprende e l’ammira. Ed era non solo poetico, ma veramente poeta quel secolo; al par di Dante, nutrito di franchi sdegni e di schietti amori; infaticabile, coraggioso, addolorato, credente.
Chi dubitasse de’ vincoli i quali congiungono le sorti dell’uomo alle sorti d’Italia, rammenti l’anno in cui Dante nacque. Era la primavera del MCCLXV, quando Carlo d’Angiò, chiamato in Italia da papa Clemente IV, e trionfalmente ricevuto entro le mura di Roma, veniva a fondare in sede omai certa le speranze de’ Guelfi, a schiantare l’ancor giovane tronco dell’arbore ghibellina, ad aprire il duello che dovevasi per tanti secoli sui campi d’Italia combattere tra Francia e Alemagna. Quali benefizj apportasse l’avvenimento francese all’Italia, lo dicono i saccheggiamenti e le disonestà dei novelli liberatori, lo dicono gli eccidii e gli stupri di Benevento; lo dicono le nuove gravezze al regno di Napoli imposte per voler d’un Francese, e per consiglio scellerato d’un Italiano; lo ripete la vostra squilla tuttavia risonante, o Vespri di sangue.
In quell’anno nasce all’Italia un ordine nuovo di cose: la causa che a Dante doveva, trentasei anni poi, costar tanto dolore e tant’ira, fin dall’anno ch’egli nacque era vinta. I quattrocento Guelfi fiorentini che, armati di splendide armi, capitanati da Guidoguerra, accorrono in aiuto di Carlo, portano un peso non leggero sulla straniera bilancia che pesa le sorti d’ Italia. Trentamila crociati scendevano per la Savoja, e trovavano alleati il Monferrato, i Torriani, il principe estense, i cittadini di Mantova; trovavano contraria Piacenza, Cremona, Pavia, Brescia, la bellicosa Brescia dal furor loro saettata, non presa. Un tradimento, se a Dante crediamo, dava ad essi il passo del Po, un tradimento il passo del Garigliano; e fin d’allora eran peste d’Italia quelle perfidie che sì largo luogo dovevano tenere nell’inferno della sua ira. La fame dell’oro, tante volte da lui maledetta, anche qui cospirava alla vittoria di Carlo. E la fazione ghibellina morì nel febbraio del seguente anno sul campo ove cadde Manfredi. E, al par della sua, fu lungo tempo ignorata la morte di lei; e le speranze di Dante stavano già fin d’allora sepolte sotto quel mucchio di sassi che la pietà de’ soldati pose, unico monumento al re sventurato. Tanto erano antichi i mali d’Italia, e tanto simili a ambascia le italiane speranze, che le speranze stesse di Dante potevano in gran parte reputarsi lontane memorie; ond’è che i suoi desiderii son tinti di cruccioso dispetto, e i suoi cantici di trionfo somigliano a lamento d’esequie; e tanta parte del suo Paradiso è un ditirambo di dolore; e il metro stesso del poema è il metro della triste elegia. Nè, se così pieno di memorie non fosse, tanto poetico in lui sarebbe l’affetto; perchè tutta dalle memorie sgorga la poesia; e con le imagini del passato compongonsi, dall’anima che sogna, gl’idoli dell’avvenire.
Incomincia dunque all’Italia un tempo nuovo. Con la vittoria de’ Guelfi, alle spade da taglio sottentrano gli stocchi da ferire di punta, simbolo della nuova politica, più acuta che vasta, più sottile che forte. Con la vittoria dei Guelfi, all’Italia si comunica il lusso, sì austeramente condannato da Dante; la contessa Beatrice, più malefica del marito, porta seco il contagio de’ dorati arnesi e delle vesti eleganti e delle amorose donne di Francia. Con la vittoria di Carlo cominciano a farsi consuetudine le adulazioni turpi al vincitore qualunque egli sia, le bugiarde acclamazioni, gli applausi rei, le chiavi offerte in tributo dalle città prima vinte che viste. Con la vittoria di Carlo imparano i vincitori a dividersi l’oro italiano co’ piedi, a trarre oro dalle lagrime, oro dalle maledizioni de’ popoli.
Intanto che Carlo nel regno di Napoli trionfava, le condizioni di tutte quasi le italiane città venivano più o meno apertamente cangiando. Reggio, di ghibellina fatta guelfa, riceve i Modenesi co’ Guelfi toscani; a Filippo Torriano succede Napoleone; la Marca è conquista d’un cardinale; Brescia scuote il giogo di Pelavicino tiranno, si dà a’ Torriani, va incontro a Napoleone e a’ fratelli con rami d’ulivo: un Torriano è morto da’ Ghibellini milanesi in Vercelli, e il sangue suo vendicato con la morte di cinquanta o figli o congiunti de’ fuorusciti uccisori; e Napoleone grida: il sangue di questi innocenti cadrà sul mio capo, e sul capo de’ figli miei. I Legati del Papa mettono in Lombardia più discordia che pace: i Guelfi cacciano i Ghibellini di Parma; Ghibellini e Guelfi si riconciliano in Firenze, e stringono matrimonii. Pisa umiliata, per trenta mila lire si libera dall’interdetto: i Veneti pigliano tutta la flotta genovese, e Genova un’altra sull’atto ne crea: i Ghibellini di Modena son difesi da Tedeschi, da Toscani, e da Bolognesi; combattuti da Bolognesi, Toscani, Tedeschi. Vittorie insomma alternate a sconfitte, più vergognose talvolta delle sconfitte; brevi concordie, brevi trionfi, lunghi guai, tenaci odii, propositi perseveranti, fortissime volontà; esuberante la vita, in estrinseci atti sfogate e dilatantisi le potenze dell’anima: passioni non fiacche, virtù non bugiarde, misfatti non timidi. Robusti i corpi, ardenti le fantasie, svariate le usanze, giovane e maschio il linguaggio. La donna or conculcata come creatura men che umana, or venerata com’angelo, ora partecipante della virile fierezza, comunicante all’uomo le doti che la fanno divina. Vicenda a vicenda succedere com’onda a onda; la sventura alternata alla gioia, come a brevi di lunghe notti; il governo de’ pochi e il governo de’ troppi confondersi insieme. Alti fatti di guerra, esempi degni dell’ammirazione de’ secoli, chiusi nel cerchio d’anguste città; grande talvolta, nella piccolezza de’ mezzi, l’intenzione e lo scopo; parole e opere che pajono formole d’un principio ideale. La religione sovente abusata, ma non sì che i benefizii non ne vincano i danni: ignudi i vizii, ma non senza pudore; efferate le crudeltà, ma non senza rimorso; memorabili le sventure, ma non senza compenso di rassegnazione o di speranze o di gloria. Le plebi occupate alle nuove arti, al traffico, al conquisto de’ civili diritti; i nobili operosi spesso al bene, spessissimo al male, ma pure operosi; e dalle inquietudini dell’animo e dalle fatiche del corpo fugata l’inerzia, peste degli Stati, la noja, inferno degli animi. La religione non divisa dalla morale, nè la scienza dalla vita, nè la parola dall’opera: il sapere composto a forte unità. Le dottrine de’ secoli passati abbellite di novità o per l’ignoranza delle moltitudini, o pe’ nuovi usi in cui si venivano, applicate, innovando. Novità ad ogni tratto nelle costituzioni, ne’ costumi, ne’ viaggi nelle arti. Tale era il secolo in cui vide la luce Durante Aldighieri.
A lui fu grande maestra la pratica appunto de’ civili negozii. «Niuna legazione (dice il Boccaccio) si ascoltava, a niuna si rispondeva, niuna legge si riformava, niuna pace si faceva, niuna guerra s’imprendeva... s’egli in ciò non desse prima la sua sentenza.» E quale dalla vita attiva provenga temperamento equabile alle umane facoltà, sempre intese a soverchiar l’una l’altra: quanta rettitudine di giudizii, agilità di concetti, sicurezza di modi, parsimonia d’artifizii, autorità, compostezza: i letterati moderni sel sanno, che, per volere o per fortuna lontani dalla esperienza delle pubbliche cose, svampano in fiamma fumosa il calor dell’affetto; i fantasmi dell imaginazione scambiano con la viva realtà, or troppo meno or troppo più bella che ai lor occhi non paja: e parlano sì che gli uomini involti nella pratica delle faccende, quelle loro artifiziose declamazioni disdegnano, le moltitudini quell’affaticato linguaggio comprendono appena. Molto dunque dovè l’Allighieri all’essere vissuto cittadino non inerte di repubblica sua: dovè forse la somma delle sue lodi, quella franca e virile severità, che già comincia nel Petrarca ad ammorbidirsi in gentilezze letterate, e nel Boccaccio è sepolta sotto le molli eleganze.
Nè gli studi dalle civile faccende, nè queste lo stolsero dagli studi: rara costanza e concordia di due in apparenza contra gli esercizii «Per la bramosia degli amati studi non curò (dice il Boccaccio) nè caldo nè freddo, nè vigilie nè digiuni, nè alcun altro corporale disagio:» ed egli medesimo parla de’ lunghi studi con grande amore consumati, e delle fami, de’ freddi, delle vigilie sofferte, che lo dimagrarono per più anni. Queste cose son buone a ridire. Perchè, sebbene ne’ giovani italiani sia in modo fausto scemata la cupidigia delle vergognose ricchezze e de’ vituperevoli onori, e s’additino con dispetto gli esempi di chi vende a speranze indegne la coscienza e la fama; pur tuttavia manca ai più l’animosa pazienza di battere le lunghissime vie che alla vera lode conducono. Le facilità molte oggidì procurate a molte opere della vita fanno altrui parere mirabilmente agevole della sapienza l’acquisto; sì che il piacere è da costoro creduto premio e corona al piacere. E veramente piene di diletti inenarrabili sono le fatiche dell’uomo che intende a conoscere e a difendere il vero; ma fatiche pur sono, e richieggono tempo e intensione d’animo e di mente, e vita modesta e astinente dalle turpi inezie del mondo.
«Se, inimicato (dice il Boccaccio di Dante) da tanti e siffatti avversarii, egli, per forza d’ingegno e di perseveranza, riuscì chiaro qual noi veggiamo; che si può sperare ch’esso fosse divenuto avendo altrettanti aiutatori?» No. Con meno avversità l’Allighieri sarebbe sorto men grande: perchè gli uomini rari alla natura debbono il germe, alla sventura l’incremento della loro grandezza. Quella vena di pietà malinconica che nel poema pare che scorra soavemente per entro alla tempera ferrea dell’anima sua, quell’evidenza che risulta dalla sincerità del profondo sentire, quella forza di spirito sempre tesa e che par sempre quasi da ignoto movente irritata e in alto sospinta, sono in gran parte debite alle umiliazioni e ai disagi della sua calunniata, raminga e povera vita.